Il conflitto armeno-azero sembra entrato nella sua fase finale, con esiti tutt’altro che chiari. In parallelo a fragili trattative di pace, riprendono le tensioni militari, minaccia di una nuova recrudescenza. È l’occasione per la Russia di riprendersi il ruolo di arbitro del proprio giardino di casa, da cui era stata esautorata nel 2023.
Se vuoi la guerra, prepara la pace
A seguito di mesi segnati da timidi passi verso la normalizzazione, la svolta sul processo di pace tra Armenia e Azerbaigian arriva il 13 marzo 2025, quando il Ministero degli Esteri armeno annuncia un accordo con la controparte azera sul testo di un trattato. Da Baku, in una dichiarazione separata, si riconosce il raggiungimento di un accordo ma vengono poste come precondizioni la modifica della costituzione armena, che a detta di Baku presenta rivendicazioni sull’ex repubblica separatista del Nagorno Karabakh, e l’eliminazione formale del Gruppo di Minsk (Minsk Group, MG). Quest’ultimo è lo strumento OSCE per la risoluzione del conflitto guidato da Russia, Francia e Stati Uniti, da tempo avversato dall’Azerbaigian che predilige invece negoziati bilaterali, lamentando un bias pro-armeno nell’azione del Gruppo.
A distanza di pochi giorni dall’annuncio dello storico accordo, il Ministero degli Esteri azero comunica presunte violazioni del cessate il fuoco da parte armena, negate perentoriamente da Erevan. Le accuse da parte azera si sono susseguite per tutto il mese successivo, mentre il 21 aprile la controparte armena ha segnalato spari dalle posizioni azere, accusa parzialmente confermata dalla missione di monitoraggio UE in Armenia; le schermaglie sono continuate con accuse reciproche fino a fine maggio 2025. L’escalation di tensione sembra un controsenso nel momento in cui le più alte cariche dei due Paesi si dichiarano vicine ad un accordo, ma va inquadrata alla luce dei rapporti di forza effettivi. Avendo ottenuto la cessazione di fatto delle iniziative multilaterali – tra cui il MG – l’Azerbaigian ha campo libero per sfruttare la sua supremazia militare nella fase negoziale; di qui le accuse a Erevan e le schermaglie al confine, minaccia diretta di un nuovo scontro militare. Vera posta in gioco geopolitica è naturalmente il corridoio di Zangezur, che Baku minaccia di prendere con la forza sperando in una resa armena al tavolo dei negoziati. Ecco che a Erevan rimangono poche alternative alla riapertura del dialogo con Mosca, che proprio sullo Zangezur spera di riguadagnare un ruolo centrale nel Caucaso meridionale, vis à vis Iran e Turchia.
Mosca osserva con attenzione
La Russia si trova quindi davanti ad un bivio: continuare la strategia adottata nel 2023, accettando come fait accompli il rilancio dell’asse turco-azero nella regione e dialogando con Baku per mantenere le proprie prerogative commerciali e di sicurezza, oppure accettare la mano tesa di Erevan e riproporsi come mediatore regionale con un occhio di riguardo alla parte armena, al fine di ridimensionare le velleità turche.

Maria Zakharova, portavoce del Ministero degli Esteri russo: il dolore armeno è il nostro dolore. Foto: mid.ru
Il relativo disimpegno sul fronte ucraino seguito al disgelo con Washington potrebbe incoraggiare Mosca a prendere la seconda strada, anche se il solco politico con Erevan renderà il processo più faticoso. Eppure, rimbeccando l’Armenia sulle fantasie europeiste, il Cremlino sembra voler riportare l’ex alleato all’ordine, più che minacciare una ritorsione. Questa interpretazione acquisisce forza alla luce di indiscrezioni della stampa di opposizione armena, ostile all’apertura di Pashinyan all’Occidente, secondo cui il primo ministro avrebbe dato indicazione di riaprire i canali di dialogo con Mosca. Allo stesso modo, le dichiarazioni di Zakharova in occasione del 110° anniversario del genocidio armeno, per cui “la Russia ha sempre vissuto il lutto armeno come fosse il proprio”, certo non sono piaciute a Baku, dove i crimini commessi dall’esercito turco-ottomano nel 1917 sono ampiamente negati.
Le relazioni tra Mosca e Erevan restano ambivalenti: le aperture a Stati Uniti ed Unione Europea non sono certo acqua passata per la Russia, e la stessa Armenia non sembra voler rinunciare ad una politica estera multilaterale. Alcuni analisti in Russia non vedono di buon occhio le dimostrazioni di indipendenza armene, tra cui il tentativo di sostituire il gas russo con quello turkmeno. Al contempo, Mosca ha tutto l’interesse a sfruttare la debolezza armena per reinserirsi sul tavolo e bilanciare la potenza turca sul proprio fianco meridionale.
L’incontro del 21 maggio tra i ministri degli Esteri Lavrov e Mirzoyan a Erevan ha lasciato trapelare un atteggiamento costruttivo da entrambe le parti, segnalando che questa strada appare percorribile. Sebbene il recupero della simbiosi politica pre-2020 sia impensabile, il Cremlino potrebbe adottare un classico schema bastone-carota nei confronti di Erevan, tirando il guinzaglio economico ed energetico per ottenere concessioni sulla cooperazione militare e imponendo uno stop a ulteriori revisioni territoriali da parte azera. In questo modo, Mosca punta a recuperare il ruolo di arbitro del conflitto, ponendo fine alla stagione del dialogo diretto tra Armenia e Azerbaigian che ha prodotto il fragile accordo di pace di cui sopra.

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan in un discorso alla nazione in cui illustra l’ideologia della “Armenia Reale”, in contrapposizione all’Armenia “storica” che si estende su territorio azero e turco. Foto: eurasianet.org
L’Armenia spalle al muro
Per Erevan, il formato negoziale bilaterale fortemente voluto da Baku è stato una maledizione. Pashinyan ha creduto che cessioni sostanziali alle richieste azere – sui confini, sulla costituzione, sull’idea stessa di Armenia – avrebbero frenato l’espansionismo di Baku garantendo l’integrità territoriale armena. I fatti suggeriscono invece che Baku non si sia posta veri limiti nel completare il progetto di connettività con la Turchia e ridisegnare l’equilibrio della regione allargata, dal Caspio al Mar Nero. La ripresa di uno scontro militare diretto è un’opzione rischiosa per l’Azerbaigian, che metterebbe a repentaglio i rapporti con Mosca – già difficili dopo l’incidente aereo di Grozny – e rafforzerebbe le voci più sensibili alla causa armena all’interno del fronte occidentale. Tuttavia, senza un bilanciamento imposto da un mediatore, è difficile prevedere le conseguenze del gioco al rialzo di Baku, specialmente se lo stallo si protrarrà fino alle elezioni armene del 2026 che potrebbero premiare l’opposizione massimalista al governo Pashinyan.
Questa disillusione sta penetrando nella leadership armena, che oggi deve pesare attentamente la scelta di escludere la Russia dalla sua strategia di difesa. Nel tentativo nobile di portare il suo Paese nella modernità, ripensandone l’identità storica in chiave profondamente pragmatica per rendere il 2023 l’anno dell’epilogo della tragedia armena, Pashinyan ha sbagliato i calcoli. Sfilarsi dall’ingombrante patronato russo senza una reale alternativa di sicurezza ha permesso all’Azerbaigian di massimizzare la pressione politica e militare, e le evoluzioni degli equilibri globali costringono oggi Erevan a tornare a parlare con Mosca in posizione di svantaggio.