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Home Dietro lo specchio

In Medio Oriente Putin tenta di salvare il salvabile

di Redazione
25 Giugno 2025
in Dietro lo specchio, Geopolitica, Russia
Tempo di lettura: 6 mins read
In Medio Oriente Putin tenta di salvare il salvabile

Il ruolo di Mosca nei negoziati che hanno portato alla tregua tra Israele e Iran è stato limitato, nonostante l’iniziativa personale del presidente russo e l’incontro col ministro degli Esteri di Teheran. Il Cremlino però adesso vuole tentare il rilancio su scala più ampia, in collaborazione con la Cina.

E Putin? Nel grande e sanguinoso pasticcio delle guerre mediorientali e nell’impeto dell’offensiva tout azimut lanciata da Israele con la benedizione degli Usa, come si regola l’inquilino del Cremlino? Che cosa teme e che cosa spera? Vladimir Putin è il leader che ha massicciamente riportato la Russia in Medio Oriente, che ha compiuto decine di viaggi nella regione (il primo, agli albori della prima presidenza, proprio in Israele), che ha ricevuto per decine di volte i leader di Paesi anche in forte contrasto tra loro come Turchia e Israele o Iran e Arabia Saudita.

Putin, in altre parole, è colui che ha (aveva?) portato a compimento la cosiddetta “dottrina Primakov”, legata al nome dell’uomo che aveva diretto il servizio di spionaggio russo, poi il ministero degli Esteri e infine lo stesso governo russo. Una stagione breve, in tutto poco più di tre anni, quella del Primakov politico, tale però da segnare in modo indelebile la Russia post-sovietica, segnata da due principi chiarissimi: la politica estera deve essere condotta all’insegna del pragmatismo e dell’interesse nazionale, e non seguendo principi ideologici astratti; la posizione internazionale della Russia non può che uscire rafforzata da alleanze con poli “altri” rispetto all’Occidente, con Paesi in crescita o già dotati di una forte posizione regionale come Iran, Cina o India.

Anche se si affrettò a metterlo da parte, spostandolo alla presidenza della Camera di Commercio, Putin si è dimostrato un fedele interprete della dottrina elaborata da Evgenyj Primakov che non a caso, prima di diventare una spia e un politico, era stato un arabista. Con omaggi anche pubblici, come quando dal palco del Valdai Club, nel 2016, disse che «Anche prima della cosiddetta Primavera Araba, Evgenyj Primakov aveva avvertito del disastro che si sarebbe provocato se i regimi secolari del Medio Oriente fossero stati rovesciati. Le sue previsioni, purtroppo, si sono avverate. Sfortunatamente, il Medio Oriente è piombato in una serie di conflitti sanguinosi che sono diventati il brodo di coltura di terrorismo ed estremismo religioso».

Dal Cremlino, Putin ha tessuto negli anni una vasta e solida rete di interlocuzioni in tutto il mondo arabo, arrivando anche a impegnare l’esercito russo nella difesa del regime siriano degli Assad, alleato di vecchia data. Quale può essere il suo stato d’animo ora che le basi in Siria sono costrette al disuso, l’Iran è investito dalla bufera, le petromonarchie del Golfo Persico si sono subito allineate ai piani di Israele per interposti Usa e i Paesi moderati del Medio Oriente hanno addirittura collaborato con le operazioni militari dello Stato ebraico? Che cosa può pensare Putin di una situazione come quella dell’Iran, che ora gode di una tregua così precaria da sembrare solo il preludio a ulteriori e persino più insidiosi tentativi di regime change?

A Putin, com’è noto, il sangue freddo non manca. E nemmeno il cinismo. La relazione con l’Iran è sempre stata, primakovianamente parlando, improntata sull’utilità reciproca, più che su chissà quali consonanze profonde. Persino il vecchio mantra sul nemico del mio nemico che diventa mio amico valeva tra Mosca e Teheran. Infatti il Trattato di partnership strategica globale che i due Paesi hanno firmato nel gennaio scorso tutto prevede tranne che l’assistenza militare reciproca in caso di aggressione. A clamorosa differenza dell’omonimo Trattato di partnership strategica globale firmato nel novembre del 2024 con la Corea del Nord, che invece tale difesa reciproca la prevede. Come se i decisori politici russi dessero più importanza al fronte asiatico o, più probabilmente, non si fidassero della lucidità politica degli ayatollah che d’altra parte, al potere dal 1979, non sono riusciti a costruire una relazione che non sia critica con alcuno dei Paesi della regione.

Così, quando Israele ha scatenato i suoi cacciabombardieri, le prese di posizione del Cremlino sono state poco più che formali. La condanna dell’attacco, il rischio di un conflitto allargato, lo spettro dello scontro atomico, il diritto di qualunque Paese a disporre di energia nucleare per usi civili. Roba da non fare nemmeno il solletico. Anche quando ha ricevuto al Cremlino Abbas Araghchi, il ministro degli Esteri iraniano, Putin non si è sbilanciato. L’unico elemento interessante dell’incontro è stata un’affermazione quasi casuale di Putin che ha detto di essere in contatto con Donald Trump, il principe ereditario saudita Mohammed bin-Salman e, evidentemente, con le autorità iraniane. Poco prima Putin aveva fatto sapere di aver raggiunto con Benjamin Netanyahu un accordo perché non fosse messa a rischio la vita dei 200 tecnici russi che lavorano alla costruzione dei due nuovi reattori della centrale iraniana di Bushehr. E così, in un modo o nell’altro,si è capito che proprio tagliato fuori dagli eventi Putin non era. E che, anzi, si teneva in contatto con tutti gli attori principali della crisi.

Da qui a concludere che il Cremlino ha avuto una qualche parte nel complesso meccanismo di tregua che ha portato alla fine dei bombardamenti, e di cui Trump si è preso tutto il merito, il passo sarebbe lungo. Troppo lungo. Anche perché Putin è troppo esperto per non capire che questa tregua ha molte probabilità di essere solo un rinvio di quel regolamento finale dei conti che Netanyahu persegue da trent’anni e che potrebbe comunque essere ottenuto nel prossimo futuro con mezzi meno clamorosi di una guerra aperta.

Come per la Siria, Putin sapeva che questo momento sarebbe arrivato. In Siria, il disimpegno rispetto al comatoso Bashar al-Assad è stato progressivo, nei mesi finali limitato a qualche bombardamento sporadico sulle basi degli islamisti, man mano che cresceva l’alternativa tra infilarsi nel vicolo senza uscita dell’appoggio a un regime che (complici le sanzioni internazionali) non aveva alcuna possibilità di risollevarsi e cercare di lubrificare il rapporto con Recep Tayyep Erdogan, il vero artefice del ribaltone che ha portato Hayat Tahrir al-Sham al potere a Damasco.

E dell’Iran si è detto. D’altra parte i militari russi, ovviamente istruiti da Mosca, prima dell’avvento al potere di Al-Jolani e i suoi hanno permesso a Israele di condurre decine e decine di incursioni contro le basi iraniane in Siria, nonostante potessero agevolmente ostacolarle con i sistemi antiaerei S-400 che avevano installato nel Paese. Nello stesso tempo la Russia non poteva schierarsi contro gli interessi di Paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar, in questi anni preziosi per la resistenza economica della Russia impegnata a sopravvivere alla guerra contro l’Ucraina e alle sanzioni dell’Occidente.

Pragmatico alla Primakov maniera, Putin non ha nemmeno provato a opporsi a ciò che superava la possibilità sue e del suo Paese e ha puntato invece a salvare il salvabile. Anche perché non può essergli sfuggito il quadro generale. In Medio Oriente c’è un progetto specifico di Israele (allargarsi nei territori palestinesi, occupare porzioni di territorio altrui e seminare il caos ovunque possa percepire un pericolo o anche solo un’opposizione) che però s’interseca perfettamente con un interesse strategico degli Usa: respingere il più indietro possibile l’influenza in Medio Oriente che Russia e Cina hanno costruito in molti anni di accorto lavoro diplomatico e di oculata penetrazione economica.

E quindi, costretto ad arretrare dal punto di vista tattico, Putin tenterà di rispondere sul piano strategico. Nel pieno dei bombardamenti israeliani sull’Iran, lui e Xi Jinping, l’uno dal forum economico internazionale di San Pietroburgo e l’altro dal secondo summit Cina – Asia Centrale di Astana (Kazakistan), si sono dati appuntamento per un bilaterale da tenere a Pechino il 2 settembre, durante i lavori dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai. Annunciando l’incontro, i due hanno aggiunto che Mosca e Pechino intendono dialogare per trovare un approccio comune alle rispettive presenze in Asia Centrale. Un modo come un altro per dire: noi siamo sempre qui, andiamo d’accordo e sapremo rispondere.

Fulvio Scaglione

Tags: Arabia SauditaEvgenij PrimakovIranIsraeleRussiaSiriaUSA
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