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Home Bielorussia

No, la Bielorussia non è l’Ucraina

di Mattia Baldoni
7 Settembre 2020
in Bielorussia, Russia, Ucraina e Moldova
Tempo di lettura: 8 mins read
No, la Bielorussia non è l’Ucraina

Gli avvenimenti dell’ultimo mese in Bielorussia hanno sollecitato tanti, e semplicistici, accostamenti tra il fermento della situazione a Minsk e l’evoluzione degli eventi ucraini di 6 anni fa. Ma il paragone è a dir poco azzardato, se non inconsistente, dati i numerosi fattori e caratteri che distinguono nettamente il movimento bielorusso e quello di Euromaidan.

Nonostante la vicinanza geografica, il passato sovietico comune e legami e dipendenze economico-politiche simili, risulta assai difficile trovare un legame tra gli eventi che hanno interessato l’Ucraina a partire dal 2013 e quelli oggi in corso in Bielorussia. Sono molti i fattori che delineano nette differenze tra i due contesti e i rispettivi avvenimenti, nonché nei rapporti e nelle reazioni dell’attore geopolitico interessato più prossimo, la Russia.

I tempi, la piazza e i simboli

I Bielorussi, espressione del crocevia di popoli baltici e slavi che hanno attraversato l’area compresa tra Polonia e Russia, hanno un fortissimo legame storico, culturale e linguistico con quest’ultima. La lingua russa, coufficiale, rappresenta l’idioma parlato correntemente dal 70% della popolazione, mentre il bielorusso si ferma al 23%. Solo l’8% della popolazione è formata da cittadini russi (in Ucraina nel 2001 erano il 17%), ma l’uso comune della lingua, l’enorme soft power culturale e la non polarizzazione geografica della minoranza russa (che in Ucraina è maggioritaria solo nell’Est del Paese) non accentuano alcun sentimento o rivendicazione nazionalista o separatista.

Considerando anche la riproposizione di simboli, idee e figure storiche più estremiste di cui si è vestita la guerra civile in Ucraina, storicamente in Bielorussia il fenomeno del collaborazionismo durante la Seconda Guerra Mondiale è stato più marginale. La bandiera bianco-rossa simbolo delle manifestazioni è stata quella del primo tentativo di costruire uno Stato bielorusso, la Repubblica del 1918-19, e della Bielorussia post-sovietica dal 1991 al 1995, cambiata dopo un referendum indetto da Lukasenka e rappresentante in primis le istanze indipendentiste del popolo bielorusso. Il suo uso durante l’occupazione nazista è irrilevante nel suo attuale impiego simbolico. A Kiev, invece, la riscoperta di quell’eredità, allora in funzione antisovietica, poi in funzione antirussa, ha giocato un ruolo molto più importante, principalmente a livello propagandistico e ideologico.

La storia post-sovietica dei due Paesi spiega anche la distanza tra gli eventi ucraini e quelli odierni in Bielorussia. Dal 1990 l’Ucraina ha, seppur con tutti i limiti e carenze del caso, tentato vari processi di riforma, modernizzazione e democratizzazione, conoscendo quantomeno l’alternanza democratica al potere (per quanto influenzato dalla radicata presenza degli oligarchi) e sperimentando già una rivoluzione, quella “arancione“, o “colorata” che dir si voglia, del 2005. A loro volta, i simboli di quel cambiamento furono bocciati dalla volontà popolare nella successiva tornata elettorale. In Bielorussia, nessuno dei processi politici sopra elencati si è mai realizzato concretamente. Se si escludono quelle del 1994, nessuna delle elezioni successive è stata riconosciuta legittima dagli osservatori internazionali, mentre le istituzioni dello Stato e l’esercizio del potere possono essere considerati la prosecuzione materiale dell’epoca sovietica, continuum che indubbiamente si riflette nella mentalità e nelle percezioni dei cittadini. Come ebbe a dire il primo presidente della Bielorussia post-sovietica, Stanislaŭ Šuškevič, l’homo sovieticus è ancora ben radicato nella testa dei bielorussi. Da qui un percorso di cambiamento diverso da quello ucraino, certamente caparbio, ma dalle tempistiche diverse, più lunghe.

Se si considera anche il Trattato sull’Unione tra Bielorussia e Russia, mai osteggiato dalla popolazione quanto piuttosto dalle ambigue istituzioni di Minsk, le proteste nel Paese non hanno alcun carattere antirusso. Il Cremlino non è preso di mira dai manifestanti, né per i legami (altalenanti) tra Putin e Lukasenka, né per gli stringenti vincoli economici ed energetici, che vedono la Bielorussia sottostare ad eventuali aperture o embarghi da parte di Mosca. A questo si associa lo svolgimento di manifestazioni essenzialmente pacifiche, che non prendono di mira il vicino orientale e i suoi rappresentanti, ma che nemmeno inneggiano all’Occidente o all’Unione europea, quando le bandiere blu stellate erano una presenza costante nel caso ucraino. Da questo punto di vista, quindi, le priorità delle piazze bielorusse e di quelle che furono le proteste ucraine sono molto diverse. Il desiderio dei manifestanti è un cambiamento nello Stato e l’obiettivo ha un nome ben definito, Aleksandr Lukasenka. Di filoeuropeismo poco o niente e di russofobia nemmeno l’ombra, notevole differenza con il trascorso ucraino.

Diplomazia, dipendenza e importanza strategica

La tattica russa, per adesso, si dimostra particolarmente attendista. Pur avendo riconosciuto la validità delle elezioni presidenziali del 9 agosto e garantito pieno supporto al presidente Lukasenka, pare piuttosto evidente che non sia nell’interesse del Cremlino uno scenario simile a quello ucraino di 6 anni prima e le ipotesi di intervento restano piuttosto deboli. Innanzitutto, il caos globale generato dalla pandemia di COVID-19, la crisi economica e le difficoltà gestionali dell’emergenza sanitaria hanno compromesso i piani di sviluppo di tutti i Paesi, Russia inclusa. Quarta al mondo per numero di casi, gestione dell’epidemia molto discussa, perdite notevoli dalla guerra lampo del petrolio con i Sauditi, malcontento serpeggiante e proteste nel suo Estremo Oriente (Chabarovsk); insomma, la situazione è ben diversa e Vladimir Putin oggi non gode sicuramente del consenso necessario per sostenere un’azione di forza (59-66% di approvazione nell’ultimo semestre secondo il Levada Centr, il punto più basso dal 2000, mentre quello avuto tra il 2014 e il 2015 era al 86-89% dopo l’annessione della Crimea e l’intervento armato in Siria al fianco di Assad). A maggior ragione, risulta ancora più improbabile un intervento laddove la popolazione bielorussa non esprime sentimenti antirussi, la minoranza russa non è minacciata da alcuna misura o evento (casus belli di molti interventi russi passati) e nessuna manifestazione mette in discussione i forti legami tra Mosca e Minsk, economici e non solo.

Per quanto quello del Cremlino sia un approccio misurato, diplomatico, finora limitatosi a posizioni ufficiali espresse dai propri portavoce, ciò non significa che Mosca sia un attore disinteressato dall’evoluzione degli eventi. La Bielorussia è sempre stata strategica per il transito delle risorse energetiche russe verso l’Europa. Attraversata dall’oleodotto Družba e dal gasdotto Jamal-Europa, che qui si diramano verso la Germania e verso l’Europa centrale, Minsk vede il suo destino intrinsecamente legato ai flussi di risorse provenienti da Mosca, al punto da plasmarne la struttura economico-industriale. Il Paese, infatti, è un hub fondamentale per la lavorazione della materia prima, con le raffinerie di Novopolock e Mozyr’ trattano oltre 40 milioni di tonnellate di greggio all’anno, i cui prodotti derivati rappresentano il 34% dell’export bielorusso.

Inoltre, in Bielorussia si trovano due basi militari d’importanza strategica primaria (così come in Ucraina lo era Sebastopoli, quartier generale della Flotta del Mar Nero) per Mosca: il 43° Centro di Comunicazione per le forze navali a Vilejka, cruciale per le trasmissioni a bassissima frequenza ai sottomarini nucleari russi, e la Stazione Radar classe “Volga” di Ganceviči, progettato per identificare i lanci di missili balistici dall’Europa occidentale e per tracciare satelliti artificiali. Un notevole avamposto per la potenza militare del Cremlino, imprescindibile in funzione anti-NATO e la cui centralità per le strategie russe non è negoziabile.

Tenendo in considerazioni questi rilevanti fattori economico-militari, Mosca non cederà comunque la sua presa sulla Bielorussia. Piuttosto, visti i recenti rapporti altalenanti, l’attrazione per il petrolio USA e gli arresti dei contractors di Wagner a Minsk solo per citare gli avvenimenti più recenti, quello che potrebbe non essere indispensabile per il Cremlino è proprio Lukasenka. Sono effettivamente molti gli episodi che caratterizzano 25 anni di alti e bassi tra i due Paesi, pur restando solide le loro relazioni, ma gli ultimi ammiccamenti ad Ovest, gli eterni indugi sul Trattato dell’Unione e le diatribe su petrolio e infiltrazioni politiche potrebbero portare Mosca a valutare una nuova leadership, sempre favorevole ai suoi interessi e misurata nei rapporti con Bruxelles e Washington. Il sostegno dell’Occidente e dell’UE per l’opposizione oggi è senza dubbio importante, ma a sua volta Svetlana Tikhanovskaja, principale sfidante di Lukasenka e portavoce delle proteste, si è detta pronta a considerare la mediazione di Mosca pur di centrare il cambiamento. Figura più vicino al Cremlino sembra essere quella di Viktor Babariko, ex-presidente della banca commerciale bielorussa Belgazprombank (il cui principale azionista è Mosca), e candidato estromesso dalla corsa presidenziale, il cui arresto già fu aspramente criticato in Russia. Mentre in Ucraina la fuga di Janukovič eliminò ogni possibilità di endorsement russo a Kiev, oggi in Bielorussia sembra che il Cremlino possa puntare su diversi cavalli, sia vecchi che nuovi.


In conclusione, quello di Mosca sugli eventi bielorussi si può definire un monitoraggio passivo, assimilabile più che al semplicistico paragone ucraino, ad un altro caso recente dell’area post-sovietica, quello armeno. La ‘rivoluzione di velluto’, che nel 2018 ha posto fine al dominio pluridecennale del Partito Repubblicano a Erevan, ha visto la Russia osservare con cautela l’evolversi degli avvenimenti, auspicando una generica risoluzione pacifica della crisi politica. Che il cavallo su cui puntare fosse l’uscente Sargsyan o il nuovo Pashinyan, Mosca ha atteso lo sviluppo degli eventi per poi poter supportare il vincitore della transizione, dal momento in cui nessun sentimento o istanza antirussa si è manifestata.

Così facendo, nessun legame è stato bruscamente interrotto, nessuna sterzata ad Occidente è avvenuta, e il Cremlino continua ad esercitare la sua solita, fortissima influenza sulla piccola repubblica caucasica, che con la Bielorussia condivide anche la schiacciante dipendenza economica da Mosca, un sostanziale isolamento diplomatico (almeno regionale) e una notevole strategicità (Minsk come avamposto della “sfera d’interesse privilegiata” russa ai confini con UE e NATO, Erevan come spinosa leva geopolitica e con un frozen conflict tra Caucaso e Medio Oriente).

Tags: ProtesteRussiaUcraina
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Mattia Baldoni

Mattia Baldoni

Caporedattore di Osservatorio Russia. Laureato magistrale in Sviluppo locale e globale, ha partecipato a progetti di cooperazione internazionale in Georgia, Grecia, Azerbaigian e Bulgaria. Le principali tematiche di cui si occupa sono la politica estera ed energetica russa e del mondo post-sovietico. Collabora inoltre con Il Caffè Geopolitico e altre testate. Leggi i suoi articoli anche su: Il Caffè Geopolitico 

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