Se la politica interna sembra promettere grossi grattacapi al futuro governo del Paese la priorità rimane, in una piccola Nazione incastonata tra due mortali nemici e ponte fra Caucaso e Medio Oriente, la politica estera. Tralasciando la travagliata ma indispensabile relazione con la Russia che abbiamo già trattato nel precedente articolo, le relazioni con tre Paesi costituiscono la priorità dell’agenda politica governativa: Azerbaijan, Turchia e Iran.
Risale al 7 dicembre scorso l’ultimo incontro fra il presidente azero İlham Əliyev e Nikol Pashinyan nel corso dei lavori dell’ultimo summit informale della Comunità degli Stati Indipendenti. I due capi di Stato concordano sulla congiuntura positiva delle relazioni bilaterali fra i due Paesi e sul prolungamento dello status quo e del relativo clima di pace che si registra lungo il confine tra Yerevan, la repubblica non riconosciuta del Nagorno Karabakh, e Baku, senza però compiere dei necessari passi in avanti per la risoluzione della crisi. Quello in corso nella regione non è altro che l’ennesimo conflitto congelato, retaggio dell’epoca sovietica, che contrappone una regione etnicamente armena al governo centrale azero che ne pretende la sovranità e che ad oggi è cogestita da Armenia e Karabakh in un contesto di parziale autonomia e legittimità.
Il conflitto del 1992 ha lasciato in eredità, oltre che un continuo stato di insicurezza (vari sono stati gli sconfinamenti reciproci, i bombardamenti al confine e gli atti intimidatori), un pesante sentimento di reciproca animosità trasversale nei due Paesi che rende difficile far avanzare un progetto realistico di risoluzione definitiva del conflitto. In questo frangente le opinioni pubbliche polarizzate, il clima di odio e la strumentalizzazione politica dettano la policy di entrambi i governi, i quali sembrano cosi preferire un precario status quo a dolorose amputazioni di territorio, foriere di pesanti ripercussioni a livello elettorale.
La figura stessa e il passato del primo ministro armeno non fanno presagire futuri colpi di scena e lasciano ben poco spazio all’ottimismo. Non solo uno dei figli di Pashinyan avrebbe attivamente partecipato in passato ad operazioni militari nella repubblica contesa, ma il primo ministro stesso non ha lesinato dichiarazioni di fuoco e aperto sostegno alla linea dura ampiamente condivisa nel Paese. “Il Karabakh non deve far parte dell’Azerbaijan.” ha dichiarato in un recente discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, denunciando l’intenzione della leadership azera di attuare una pulizia etnica non dissimile a quella operata nel Naxçıvan (exclave azera confinante con Yerevan), spiegando cosi l’impossibilità di cedere senza negoziati la repubblica a Baku non prima di reciproci compromessi e in un’atmosfera di collaborazione e fiducia reciproca. Dichiarazioni forti non dissimili da quelle del presidente azero Əliyev, in grado di rassicurare l’opinione pubblica armena e gli influenti apparati militari vicini ai destini di Stepanakert (capitale del Nagorno Karabakh) ma che allontanano ogni possibile speranza di distensione.
A pesare sulle relazioni con la Turchia resta sicuramente il nodo centrale del genocidio armeno, tragedia nazionale ed elemento fondante nella formazione della nazione, nonché la chiusura totale della frontiera Yerevan – Ankara: la Turchia infatti non solo non riconosce ad oggi il genocidio compiuto dai Giovani Turchi nel 1915-1917, ma continua a sponsorizzare un nazionalismo panturco (solidale all’alleato azero) negando e riscrivendo la storia in maniera quantomeno discutibile. Nel novembre 2018 Pashinyan ha ribadito che l’Armenia è pronta a normalizzare le sue relazioni con la Turchia senza condizioni preliminari, ma ha affermato che il riconoscimento del genocidio non è “una questione di relazioni armeno-turche”, ma è “una questione di sicurezza per noi e una questione di sicurezza internazionale, ed è il nostro contributo al movimento e al processo di prevenzione del genocidio“. La Turchia per il nuovo primo ministro armeno deve fare i conti con il suo sanguinoso passato, ma la normalizzazione delle relazioni bilaterali continua ad essere per Ankara una mossa politica rischiosa attualmente impossibile da implementare nonostante le pressioni degli Stati Uniti (a loro volta pressati dalla lobby armeno-americana, influente a Washington).
Stringere e rafforzare la cooperazione con la repubblica islamica d’Iran rappresenta una scelta obbligata per sfuggire all’accerchiamento turco-azero e alla dipendenza dalla Russia, ma rischia di danneggiare le già tese relazioni con gli Stati Uniti. Uno strano rapporto quello fra Teheran e Yerevan che si nutre delle affinità culturali secolari fra la Persia e il Caucaso e sulla condivisa avversione reciproca nei confronti del panturchismo. L’Iran, a scapito di una cospicua percentuale di cittadini di origine azera (20%), persegue fin dai tempi degli shah un rapporto di fruttuosa cooperazione commerciale e diplomatica con l’Armenia, frutto della volontà dei decisori della repubblica islamica di influire maggiormente nel puzzle caucasico e di indebolire l’irredentismo azero.
La rivoluzione di velluto ha riacceso le speranze in Rouhani nel ristrutturare e migliorare le relazioni bilaterali danneggiate dalla mancanza di una chiara leadership del precedente governo Sargsyan. Il 26 settembre nel corso dell’Assemblea delle Nazioni Unite, i leader delle due nazioni si sono incontrati accordandosi sull’ampliamento della zona commerciale di confine di Meghri che, oltre a generare necessaria liquidità per entrambi i Paesi schiacciati dalla crisi economica o dalle sanzioni americane, potrebbe rappresentare un importante corridoio strategico nell’alveo delle difficili relazioni fra Iran e Russia che Putin vorrebbe coinvolgere nell’Unione economica eurasiatica. Eppure, in passato è stata proprio Mosca a sabotare alcune iniziative persiane in Armenia nel campo dell’esportazione di idrocarburi, temendo l’eccessiva influenza di Teheran nel piccolo Paese caucasico, ma il timore dell’offensiva americana che accomuna Russia e Iran rischia di coinvolgere le due Nazioni in un potenziale abbraccio euroasiatico che potrebbe strangolare le aspettative decisionali delle élite politiche a Yerevan.
Recepito con timidezza invece il messaggio che Maja Kocijancic, portavoce per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea, ha lanciato alla coalizione vincitrice all’indomani dei risultati elettorali: “Siamo ansiosi di lavorare con il nuovo Parlamento democraticamente eletto e il futuro Governo per approfondire le nostre relazioni politiche ed economiche sulla base degli impegni congiunti dell’accordo di partenariato globale e rafforzato UE-Armenia.”
L’Armenia è costretta a giocare un ruolo di primo piano nell’arena geopolitica che ben poco si addice alle sue scarse risorse materiali e umane. Se il nuovo primo ministro sarà in grado di affrontare e vincere le sfide interne e rompere l’accerchiamento lungo le sue frontiere, coltivare alleanze proficue con i partner di sempre, tessendo al contempo nuove relazioni con attori emergenti (Cina, Asia, Europa), dipenderà dalla volontà del popolo armeno di compiere sforzi titanici che potrebbero cambiare il destino della Nazione.
Siamo ansiosi di lavorare con il nuovo Parlamento democraticamente eletto e il futuro Governo per approfondire le nostre relazioni politiche ed economiche sulla base degli impegni congiunti dell’accordo di partenariato globale e rafforzato UE-Armenia.
Maja Kocijancic,portavoce per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’UE