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Home Asia Centrale

Tajikistan: il terrorismo jihadista, tra repressione e silenzio internazionale

di Marco Limburgo
20 Maggio 2019
in Asia Centrale
Tempo di lettura: 7 mins read
Tajikistan: il terrorismo jihadista, tra repressione e silenzio internazionale

La notizia di un massacro nell’irrequieta e povera repubblica centroasiatica dovrebbe deviare le attenzioni del mondo verso un’area costantemente dimenticata dai media e persino dagli analisti del settore. Se indiscutibilmente le autorità del Paese stanno intraprendendo un percorso di accrescimento del prestigio della nazione nel panorama internazionale ospitando summit e stringendo accordi con partner globali o locali, nel fronte interno si rafforza il pericolo del radicamento di cellule o lupi solitari fomentati, o ispirati da quel che resta dello Stato Islamico dopo la disfatta militare.

Nella prigione della città di Vahdat (10 chilometri a est della capitale Dushanbe e rinomata per ospitare dissidenti legati all’opposizione islamista del Partito della Rinascita Islamica – IRPT), un gruppo di internati ed ergastolani accusati di appartenere o simpatizzare apertamente per lo Stato Islamico (ISIS) ha inscenato una rivolta dopo aver aggredito mortalmente tre guardie di sicurezza e cinque prigionieri. Dopo quest’azione violenta, diversi carcerati si sarebbero sollevati aizzati dai fondamentalisti, costringendo le autorità antisommossa ad intervenire e sopprimere i disordini in un bagno di sangue costato la vita a 25 detenuti. I funzionari hanno riportato la notizia che tra i morti ci sarebbero membri importanti dell’IRPT, come Saeed Qiyomiddin Ghozi e Sattor Karimov condannati entrambi a lunghe pene detentive dopo aver ricevuto pesanti accuse (strumentali e fabbricate ad arte secondo l’opposizione in esilio) di tradimento, cospirazione e finanziamento delle reti terroristiche. Uno degli istigatori della rivolta (poi morto negli scontri) è stato Bekhruz Gulmurod, figlio di Gulmurod Khalimov, un colonnello tagico delle forze speciali che nel 2015 clamorosamente disertò per unirsi allo Stato Islamico, scalando le gerarchie islamiste divenendo in breve tempo “Il ministro della Guerra” del califfato, ma trovando la morte nel corso di un bombardamento della coalizione. Una defezione simbolica non solo del dissenso diffuso tra le masse emarginate, ma anche all’interno dei quadri vicini al regime tendenzialmente scelti secondo metodiche di fedeltà familistica tribale verso i vertici.

Lo scorso novembre, l’ISIS aveva rivendicato la responsabilità di un’altra rivolta del carcere tagiko, che va ad aggiungersi al terribile attentato costato la vita a quattro turisti americani nel luglio 2018, spia di un fenomeno non più ignorabile non solo dalle autorità locali, ma anche dalla comunità internazionale. Questo episodio di violenza non è il primo in un Paese che sta affrontando una vera e propria crescita esponenziale del fenomeno “radicalismo islamico”, di fronte cui il governo Rahmon non sembra in grado di rispondere con la dovuta efficacia. Per porre un freno a un fenomeno all’apparenza inarrestabile, Dushanbe ha scelto la repressione (carcerazioni, gogna pubblica, fermi, perquisizioni, sequestri) ma ha anche offerto l’amnistia a tutti coloro disposti ad abbondare il gruppo armato e tornare a casa, a condizione che non abbiano commesso altri crimini. Due settimane fa, lo stesso governo di Dushanbe aveva deciso di rimpatriare i bambini figli di miliziani dello Stato Islamico prigionieri o bloccati in Siria. Una strategia confusa, sintomo di una palese incapacità di cooptare un fenomeno mai stato cosi preoccupante, ma non inedito in un Paese teatro di una sanguinosa guerra civile tra il 1992 ed il 1997, conclusasi solamente grazie al determinante intervento militare della Russia, che dalla caduta dell’Unione Sovietica garantisce la sicurezza e l’ordine nel Paese, investendo capitali e dislocando truppe in un area dal forte interesse strategico.

Dall’ascesa dello Stato Islamico e dalla proclamazione del Califfato, circa 2000 cittadini tagiki sarebbero espatriati per combattere la jihad . Come altrove, un ruolo importante l’ha giocato la povertà, l’emarginazione e il precario stato delle conquiste sociali nel Paese ex-sovietico, ma anche la repressione dell’Islam messa in piedi dal governo autocratico del presidente padrone Emomali Rahmon (ennesimo satrapo locale sul trono dal 1994). Con l’obiettivo di indebolire l’opposizione, screditarla e perpetuare il potere, il governo e le potentissime forze di sicurezza reprimono assiduamente non solo le libertà civili e di espressione, ma anche il ruolo tradizionalmente giocato nella società tagika dalla religione (fattore identitario aggregante) fortemente gerarchizzandolo secondo schemi controversi e assolutamente inadeguati. Questo può essere inquadrato come uno dei moventi fondanti della riscoperta di un Islam radicale, lontano dai dogmi propagandati dagli ulema di Stato. Il governo si è lanciato in criticate pratiche atte a impedire una islamizzazione incontrollata della società, imponendo uno stile laico forzato (vietato far crescere la barba secondo la moda islamica, dare nomi coranici ai figli, indossare il velo ecc.) che sta riscontrando risultati controversi. Questo fenomeno non è affatto una novità circoscritta in questa particolare area geografica, ma è presente anche in diversi Stati mediorientali come Siria o nelle repubbliche caucasiche russe, come la Cecenia. Le autorità patrocinano la diffusione del misticismo sufi (quietista e tendenzialmente allineato con le autorità) con la precisa volontà di porre un freno alle istanze autonomiste e sistematicamente ribelli del coacervo etnico della zona, spingendo dissidenti, scontenti o emarginati a seguire la strada della rivolta armata nel Siraq o a livello locale.

Altro fattore non indifferente è la pervasività, l’influenza e la crescita del radicalismo sovvenzionato e sponsorizzato dalle madrase (scuole islamiche) e dalle moschee wahhabite, dietro cui si cela l’influenza dei Paesi del Golfo (Arabia Saudita in primis). In un percorso che dalle capitali europee, via Caucaso, aree a maggioranza sunnite irachene e siriane, Pakistan, fino in Indonesia, le autorità saudite sovvenzionano la costruzione di strutture scolastiche, spesso imponenti, tesa a diffondere il credo violentemente conservatore su cui si basa il patto tra governo e altare nella Penisola Arabica e con il fine di guadagnare proseliti nell’eterna disparità settaria islamica. I finanziamenti vengono canalizzati attraverso una miriade di enti e istituti caritatevoli o panislamici difficilmente tracciabili e debolmente legati a livello ufficiale con Riyadh nel coacervo della ancora poco regolamentata finanza islamica.

​I jihadisti dall’Asia centrale si sono distinti nel corso del conflitto con le autorità centrali siro-irachene per brutalità, addestramento ed efficienza, arrivando a posizioni di spicco nella leadership del fu Stato Islamico.

Una situazione esplosiva di sicuro peggioramento, che potrebbe conflagrare coinvolgendo le altrettanto fragili repubbliche centroasiatiche in un conflitto asimmetrico potenzialmente devastante. Un contagio islamista in Tagikistan può facilmente espandersi anche alla Russia grazie alla cosiddetta “carovana dei migranti“. Secondo le ultime stime delle Nazioni Unite infatti, la popolazione del Tagikistan dovrebbe aggirarsi intorno a 8.574.000 persone; tuttavia, secondo un report stilato dalla organizzazione non governativa russa “Federazione dei Migranti” oltre 1.745.000 Tagiki si sarebbero trasferiti in Russia nel solo periodo tra gennaio e settembre 2018 (una cifra di poco inferiore al numero totale di migranti arrivato nell’intera Unione Europea nel biennio 2016-17). Se teniamo in considerazione il fatto che il tipico migrante-lavoratore tagiko in Russia è maschio, di età compresa tra 18 e 45 anni, e che la popolazione tagika in quella fascia d’età corrisponde a circa 5.498.000 persone (dei quali 2.723.000 uomini e 2.775.000 donne) sembrerebbe quindi che quasi la metà della popolazione maschile tagika attiva si sia trasferita in Russia, con il rischio di provocare una doppia bomba sociale e securitaria in patria come all’estero.

In ultimo è interessante notare come questa esplosione di violenza segua di qualche giorno l’inaugurazione nella capitale Dushanbe dell’attesa “Conferenza sulla cooperazione internazionale e regionale per contrastare il terrorismo e il suo finanziamento attraverso il traffico illecito di stupefacenti e il crimine organizzato” fortemente voluta dal presidente tagico Emomali Rahmon, che nel suo discorso inaugurale ha sottolineato la necessità di rafforzare le potenzialità dei Paesi e dei loro servizi speciali al fine di prevenire il terrorismo e l’estremismo che “scuote le fondamenta della sicurezza internazionale e causa una situazione instabile in varie regioni del mondo.” Silenzio assordante delle autorità governative e della autorità internazionali ospiti dell’evento nei confronti delle misure repressive e antidemocratiche messe in piedi dal regime nei confronti di oppositori, giornalisti o attivisti e verso i recenti scontri nei pressi del poroso, conteso e accidentato confine con il Kirghizistan, dove due cittadini tagiki hanno perso la vita in un conflitto a fuoco figlio della rivalità etnica.​

Tags: IslamTagikistanterrorismo
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Marco Limburgo

Marco Limburgo

Da sempre appassionato di storia, letteratura e politica internazionale si laurea a Bologna in Storia Contemporanea e decide, successivamente, di trasferirsi a Forlì per studiare Scienze Internazionali e Diplomatiche, dove si laurea nel 2020. Socio fondatore di Osservatorio Russia, contribuisce al progetto con analisi inerenti all’Asia Centrale e alle relazioni tra Medio Oriente e Russia, nonché curando la rubrica di approfondimento storico Smolensk, di cui è coordinatore.

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