L’Unione Europea sta compiendo i primi passi formali verso l’ingresso di Ucraina e Moldova (e forse pure della Georgia). Si tratta davvero di un investimento nella pace e nella sicurezza, come promettono i suoi vertici? E che conseguenze può avere la progressiva sovrapposizione geopolitica tra UE e NATO?
La decisione del Consiglio europeo di avviare i negoziati di adesione con l’Ucraina e la Repubblica di Moldova (e di concedere lo status di Paese candidato alla Georgia) è stata accolta con molto entusiasmo in quasi tutti gli ambienti politici e intellettuali dell’Europa occidentale. Nel relativo comunicato, il Consiglio ha scritto che “l’allargamento rappresenta un investimento geostrategico nella pace, nella sicurezza, nella stabilità e nella prosperità”. Sarebbe di cattivo gusto, con l’Ucraina bombardata ogni giorno, far notare che, a partire dall’allargamento del 2004 (quando entrarono nella UE, tra gli altri Paesi, Polonia, Ungheria, Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lettonia, Estonia e Lituania), non è andata esattamente così: oggi c’è meno pace, sicurezza, e stabilità di prima. E quanto alla prosperità, sarebbe intelligente riconoscere che nel raggiungerla giocò un certo ruolo l’accesso diretto alle risorse energetiche della Russia, ovvero a rifornimenti sicuri e a prezzi sostenibili di gas e petrolio. Si dirà: colpa della Russia e della sua invasione. Vero anche questo. Ma pur volendo fingere che la Storia sia cominciata il 24 febbraio del 2022, dovremmo tener conto di un semplice fatto: la Russia esiste ed esisterà ancora a lungo, con i problemi, le manie, le ambizioni e le perversioni che si porta dentro. Non sparirà solo per renderci le cose più facili.
Proviamo dunque a guardare avanti e a immaginare (altra limata agli entusiasmi, ma tant’è) che Ucraina e Moldova riescano davvero a rispettare tutte le condizioni per l’ingresso e che domani si compia questo ulteriore allargamento dell’Unione Europea. Come ben sappiamo, avendo la UE appena licenziato il dodicesimo pacchetto di sanzioni economiche contro Mosca, ci ritroveremo con un’Unione che avrà esponenzialmente allungato il proprio confine con la Russia, dal Mare del Nord al Mar Nero al Mar Mediterraneo senza soluzione di continuità, mentre nel frattempo Bruxelles avrà ridotto a zero le relazioni politiche ed economiche con Mosca. Condizione che, ci hanno detto e ripetuto sia le autorità comunitarie sia i più influenti capi di Stato e di governo, non cambierà con la sola fine della guerra. Per riallacciare in qualche modo le relazioni con l’Occidente, la Russia dovrà disarmare, risarcire l’Ucraina per i danni di guerra e fare chissà quali altri atti politici ed economici di pentimento. Se mai riuscirà a uscire dall’inferno, resterà in purgatorio per chissà quanto tempo.
Quel confine, dunque, sarà un confine militare, una specie di vallo di Adriano per tenere alla larga i barbari, nel rispetto di un altro mantra dei dirigenti UE e dei politici occidentali: se Putin vince in Ucraina, poi toccherà a qualcun altro di noi. Per dirla con Josep Borrell, responsabile della politica estera e di sicurezza dell’Unione: “Se Putin vince in Ucraina, l’Europa intera sarà in pericolo”. Molti Paesi UE, dal momento dell’invasione russa, hanno cominciato a prendere iniziative individuali per proteggersi. Dall’anno prossimo la Lituania ospiterà sul proprio territorio una brigata di soldati tedeschi. La Finlandia ha appena firmato un accordo per concedere agli Usa la dislocazione di truppe sul proprio territorio, oltre all’uso di una lunga serie di basi militari. La Polonia ha varato un piano di riarmo chiamato “Modello 2035”, che prevede di portare le spese della difesa al 3% del Pil, formare un esercito di 300 mila uomini (rispetto ai 120 mila attuali) e comprare nuovi armamenti, all’insegna del monito ripetuto anche nei giorni scorsi da Jacek Seviera, capo dell’Ufficio polacco per la sicurezza nazionale: “Abbiamo solo tre anni per prepararci a un confronto con la Russia”. La Germania ha stanziato 100 miliardi per rinforzare le proprie forze armate. E così via.
La vera questione, però, sarà un’altra: nei fatti, il confine dell’Europa comunitaria con la Russia corrisponderà quasi perfettamente al confine della Nato con la Russia. E anche in questo caso, dal Mare del Nord al Mar Nero al Mar Mediterraneo. La Finlandia è appena entrata nell’organizzazione militare dell’Alleanza Atlantica e la Svezia sta facendo di tutto per seguirla. L’Ucraina, come ripete quasi ogni giorno il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, le seguirà a ruota non appena la guerra sarà finita. In poche parole, si completerà la sovrapposizione tra Alleanza ed Unione che, peraltro, è sempre stata nelle premesse: dei 31 Paesi che formano la Nato, 22 sono membri dell’Unione Europea, 7 sono europei pur senza appartenere alla Ue (Albania, Islanda, Macedonia del Nord, Norvegia, Regno Unito e Turchia) e gli altri due sono Usa e Canada. La Nato è un’organizzazione con i piedi in Europa ma con il corpo e la testa negli Usa.
Nel febbraio del 2022, quando la spedizione russa in Ucraina era appena cominciata, in pochi giorni gli Usa riuscirono a dislocare in Europa 20 mila soldati in più, nel primo di una serie di irrobustimenti che hanno portato la presenza militare Usa sul continente a 100 mila uomini. D’altra parte, basta osservare l’andamento nel tempo per capire che l’Europa, quando pensa a difesa e sicurezza, pensa agli Stati Uniti. Dopo una parziale smobilitazione alla fine della Seconda guerra mondiale, le truppe Usa raggiunsero il massimo numero nel 1957, all’inizio della Guerra fredda: 450 mila uomini. Un calo successivo e poi un altro picco: 340 mila uomini nel 1987, con la perestrojka russa in pieno corso. Il minimo storico nel 2018, ai tempi di Donald Trump, con 65 mila uomini. E ora, dopo l’invasione dell’Ucraina, la risalita a 100 mila, la stessa quota del 2005, quando la war on terror di George Bush era in pieno svolgimento e l’Europa colpita dal terrorismo islamista. Questo per il corpo. Quanto alla testa, basta citare il fatto che il comandante delle truppe Nato in Europa è sempre stato un americano: dal generale Eisenhower dei primi tempi all’attuale generale Christopher Cavoli.
Si capisce dunque che, allargamento o no, Ucraina o no, il problema dell’ipotetica futura Unione Europea sarà lo stesso identico del passato: la relazione con la Russia. Con due complicazioni. La prima è che, a quel punto e nelle condizioni di cui abbiamo detto, la relazione si muoverà soprattutto sulle linee del confronto militare. Un esempio: dopo che la Finlandia ha annunciato l’accordo con gli Usa, la Russia ha predisposto la costituzione di un nuovo distretto militare nella regione di San Pietroburgo, dove saranno dispiegate anche armi nucleari. La seconda complicazione sarà la relazione con l’altra metà del cielo, ovvero con gli Stati Uniti. Se n’è reso conto lo stesso Borrell, che nei giorni scorsi ha detto più o meno: ci è costato molto, forse abbiamo sostituito una dipendenza con un’altra ma così ci siamo liberati del legame con la Russia. L’allusione alla “nuova dipendenza” riguardava appunto gli Usa, che ora per noi europei sono decisivi non solo per la difesa ma anche per l’economia. Il 71% del GNL americano viene esportato in Europa, e non a prezzi di realizzo. E altrettanto si può dire per Paesi strettamente legati alle strategie Usa come l’Azerbaigian che, come da contratto firmato con la Ue nel 2022, dovrebbe arrivare a fornirci 20 miliardi di metri cubi l’anno entro il 2027. Fino a che punto siamo sicuri che gli interessi strategici americani coincidano con quelli europei? È questo ciò che abbiamo visto negli ultimi dieci anni? Ai posteri e agli allargamenti l’ardua sentenza.
Fulvio Scaglione