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Home Storia e Religione

Com’è nato (e perché è fallito) il Memorandum di Budapest

di Redazione
9 Maggio 2025
in Russia, Storia e Religione, Ucraina e Moldova
Tempo di lettura: 11 mins read
Com’è nato (e perché è fallito) il Memorandum di Budapest

La storia del famigerato Memorandum, che in cambio della cessione delle armi nucleari sul territorio dell’Ucraina avrebbe dovuto garantire a quest’ultima la sicurezza. Come si è arrivati agli accordi del 1994 e soprattutto perché sono falliti.

Nel 1991 la dissoluzione dell’Unione Sovietica pose nuove sfide alla sicurezza internazionale, tra cui la gestione dell’eredità nucleare nei nuovi Stati indipendenti. L’Ucraina, improvvisamente divenuta terza potenza nucleare al mondo, si trovò davanti a un dilemma: mantenere l’arsenale o cederlo in cambio di garanzie di sicurezza. In questa analisi ricostruiremo il processo che portò alla denuclearizzazione ucraina, dal Protocollo di Lisbona al Memorandum di Budapest, esaminando le dinamiche diplomatiche tra Ucraina, Russia e Stati Uniti. Valuteremo inoltre l’efficacia delle garanzie offerte a Kiev e le implicazioni della loro violazione sul regime internazionale di non proliferazione nucleare.

La dissoluzione dell’Unione Sovietica e l’eredità nucleare ucraina: il contesto iniziale

Il crollo dell’Unione Sovietica, accelerato dal fallito colpo di Stato dell’agosto 1991, segnò la fine di un’era e aprì un periodo di profonda instabilità geopolitica. La fragilità del controllo centrale, evidenziata dal caos sul comando nucleare durante il golpe, sollevò preoccupazioni internazionali sulla sicurezza delle armi nucleari disperse tra le repubbliche indipendenti.[1] Gli Stati Uniti, in particolare, temevano il rischio di una proliferazione incontrollata o di una diffusione del know-how nucleare verso Paesi ostili.[2]

L’Ucraina, fondamentale per il peso economico e militare dell’ex URSS, intraprese rapidamente il cammino verso l’indipendenza, sancita dal referendum del 1° dicembre 1991. Con essa, Kiev ereditò un imponente arsenale nucleare: 176 missili balistici intercontinentali SS-24, 130 SS-19 e una flotta di bombardieri strategici, oltre a un’ampia infrastruttura nucleare civile e industriale. La gestione di questa eredità nucleare divenne una questione cruciale. La neonata Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) cercò di mantenere un controllo congiunto sugli arsenali, ma emerse ben presto la volontà di molte repubbliche, tra cui l’Ucraina, di affermare pienamente la propria sovranità, anche sul piano militare.[3]

Nel frattempo, gli Stati Uniti si adoperarono per impedire la nascita di nuovi Stati nucleari. Attraverso iniziative come il trattato START I, le Presidential Nuclear Initiatives (PNIs) e il programma Nunn-Lugar di Cooperazione per la Riduzione delle Minacce, Washington lavorò per contenere i rischi di proliferazione in un ambiente altamente instabile.[4] Questi strumenti diplomatici miravano non solo a ridurre gli arsenali nucleari esistenti, ma anche a favorire la denuclearizzazione volontaria delle nuove repubbliche indipendenti.[5]

In Ucraina, il trauma di Černobyl’ del 1986 aveva radicato un forte sentimento anti-nucleare nell’opinione pubblica, rafforzato poi nella Dichiarazione di Sovranità e nell’Atto di Indipendenza. Tuttavia, il mantenimento dell’arsenale veniva percepito anche come una garanzia di sicurezza e come uno strumento negoziale nel nuovo equilibrio internazionale. La leadership ucraina si trovò quindi di fronte a un vero e proprio “dilemma nucleare”: rinunciare alle armi, rafforzando la propria integrazione internazionale ma assumendosi rischi di sicurezza futuri, oppure mantenere un deterrente militare a costo dell’isolamento e di crescenti tensioni con il resto della comunità internazionale.[6] Questo dilemma si intrecciava con molteplici fattori: le ingenti spese per la manutenzione degli arsenali, la difficoltà tecnica di ottenere il pieno controllo operativo sulle testate, il valore economico dei materiali nucleari, e soprattutto la necessità di ottenere credibili garanzie di sicurezza e compensazioni internazionali.

Dall‘indipendenza al Protocollo di Lisbona: la prima fase della denuclearizzazione

Su un piano giuridico, la situazione era estremamente ambigua. Il diritto internazionale, in particolare la Convenzione di Vienna sulla successione degli Stati, lasciava spazio a interpretazioni diverse sul destino degli obblighi nucleari. L’Ucraina rivendicava una forma di titolarità sulle armi presenti sul suo territorio, mentre Russia e Stati Uniti insistevano sul fatto che il controllo operativo rimanesse centralizzato a Mosca.[7]

Nei primi mesi successivi all’indipendenza, l’Ucraina manifestò un approccio idealista. Durante gli accordi di Almaty del 1992, Kiev accettò senza porre condizioni il trasferimento delle armi nucleari tattiche alla Russia, rinunciando a rivendicare compensazioni concrete. Tuttavia, questa fase di fiducia idealista lasciò presto spazio a una maggiore consapevolezza politica.

In questo quadro si inserisce il Protocollo di Lisbona, firmato il 23 maggio 1992. L’accordo rappresentava un compromesso pragmatico: gli Stati Uniti e la Russia riuscirono a integrare Ucraina, Bielorussia e Kazakistan nella cornice del trattato START, chiedendo però la loro successiva adesione al NPT come Stati non-nucleari.[8]

Se formalmente il Protocollo sembrava risolvere la questione, in realtà lasciava aperti numerosi interrogativi: primo fra tutti, il reale controllo politico e tecnico sugli arsenali ancora presenti. Le tensioni tra Kiev e Mosca — acuite dalle dispute sulla Crimea e sulla Flotta del Mar Nero — resero evidente che il processo di denuclearizzazione sarebbe stato molto più complesso e prolungato di quanto inizialmente previsto.

Il Protocollo di Lisbona chiudeva così la prima fase della denuclearizzazione ucraina: una fase segnata da entusiasmo idealista, crescente disillusione e l’emergere di un nuovo equilibrio, in cui l’Ucraina iniziava a rivendicare un ruolo più assertivo e consapevole nel definire il proprio destino nucleare.

Il negoziato trilaterale: tra tensioni, diplomazia e compromessi

La firma del Protocollo di Lisbona nel maggio 1992 non pose fine alle incertezze legate all’arsenale nucleare ucraino. L’accordo infatti lasciava irrisolte questioni cruciali: dalla proprietà degli armamenti alle garanzie di sicurezza, fino alle compensazioni economiche. Iniziava così una fase prolungata di negoziati complessi, in cui l’Ucraina, consapevole del valore strategico del proprio arsenale, cercò di sfruttare la situazione a proprio vantaggio.

Inizialmente inesperta sul piano internazionale, l’Ucraina, anche grazie alla nomina di Leonid Kuchma come primo ministro, adottò una postura più pragmatica. Kuchma, forte della sua esperienza industriale e missilistica, comprese il potenziale valore economico delle testate nucleari, rafforzando la convinzione che esse dovessero essere utilizzate come leva per ottenere assistenza, riconoscimento e garanzie. A livello interno, il parlamento — la Rada — acquisiva un peso crescente, opponendosi spesso all’esecutivo e rifiutando di procedere verso la denuclearizzazione senza condizioni chiare. Il protagonismo parlamentare rese il processo ancora più articolato.[9]

Sul piano internazionale, le tensioni non tardarono a emergere. Gli Stati Uniti, dopo un iniziale ottimismo, si scontrarono con la realtà di un’Ucraina intenzionata a negoziare da una posizione di forza. Il governo americano si rese conto che per Kiev il disarmo non era solo una questione tecnica, ma una partita geopolitica legata alla sopravvivenza nazionale. L’elemento più spinoso emerse presto: la richiesta ucraina di ricevere una quota di compensazione per l’uranio altamente arricchito (HEU) che sarebbe stato ceduto alla Russia, una questione su cui Washington dovette intervenire direttamente.[10]

La transizione presidenziale negli Stati Uniti aggravò la situazione. L’amministrazione Bush, ormai concentrata sulla campagna elettorale del 1992, perse slancio diplomatico, come dimostra l’uscita di scena di James Baker dal Dipartimento di Stato. Con l’arrivo di Bill Clinton, la strategia cambiò radicalmente: la nuova amministrazione adottò un approccio più inclusivo e multilaterale, cercando di integrare l’Ucraina nelle architetture di sicurezza occidentali attraverso incentivi economici e diplomatici.

Nel frattempo, i negoziati bilaterali tra Ucraina e Russia si arenarono. La questione della “proprietà” delle armi nucleari divenne insormontabile: Kiev rivendicava la titolarità delle testate presenti sul proprio territorio, mentre Mosca, forte del riconoscimento come unico stato successore dell’URSS, si opponeva fermamente. Il fallimento dei colloqui di Irpin nel 1993 spinse gli Stati Uniti a proporre un formato trilaterale per superare l’impasse.

Il contesto internazionale, intanto, diventava sempre più teso. La disputa sulla Flotta del Mar Nero e le rivendicazioni russe su Sebastopoli alimentarono l’insicurezza ucraina. In questo clima, il vertice di Massandra, nel settembre 1993, sembrò inizialmente aprire uno spiraglio: Ucraina e Russia raggiunsero un’intesa di principio su compensazioni e disarmo. Tuttavia le pressioni economiche russe e la debolezza negoziale di Kiev fecero rapidamente naufragare l’accordo.[11] Massandra, pur fallendo sul breve termine, gettò comunque le basi per successivi sviluppi.[12]

In risposta al crescente isolamento, la Rada approvò una ratifica condizionata del trattato START nel novembre 1993. Se da un lato questo atto segnava un passo verso la denuclearizzazione, dall’altro riaffermava la titolarità ucraina sugli armamenti e subordinava il processo a precise garanzie di sicurezza. Le reazioni internazionali furono contrastanti: se Stati Uniti, Regno Unito e Francia espressero delusione, alcuni Paesi europei come Austria e Ungheria mostrarono comprensione per le paure ucraine .

Il deterioramento della situazione economica interna e la minaccia crescente rappresentata dal nazionalismo russo — come quello incarnato dalla figura di Vladimir Žirinovskij — accelerarono la ricerca di una soluzione definitiva.[13] Sotto la spinta di intensi sforzi diplomatici statunitensi, culminati con la visita di Bill Clinton, il 14 gennaio 1994 venne finalmente firmato a Mosca il Trilateral Statement.[14] L’accordo prevedeva il trasferimento delle testate strategiche ucraine alla Russia in cambio di assistenza economica statunitense, compensazioni per l’uranio altamente arricchito e, soprattutto, assicurazioni, e non vere “garanzie”, di rispetto della sovranità e integrità territoriale da parte di Stati Uniti e Russia. Proprio la distinzione terminologica tra “assurance” e “guarantee” avrebbe avuto ripercussioni decisive negli anni successivi.

La firma del Trilateral Statement segnava così la conclusione di un faticoso negoziato trilaterale e apriva la strada al Memorandum di Budapest, che avrebbe sancito formalmente l’impegno alla denuclearizzazione dell’Ucraina e, almeno in teoria, la cristallizzazione delle assicurazioni di sicurezza nei confronti di quest’ultima.

Il Memorandum di Budapest e la frattura del sistema di non proliferazione

Il processo di denuclearizzazione dell’Ucraina raggiunse il suo culmine con la firma del Memorandum di Budapest il 5 dicembre 1994. Questo accordo, siglato da Ucraina, Stati Uniti, Russia e Regno Unito, rappresentava non solo la formalizzazione delle intese precedenti, ma anche un impegno politico solenne a rispettare la sovranità e l’integrità territoriale ucraina.[15]

Dietro il successo apparente si celavano tuttavia profonde ambiguità: le “assicurazioni” offerte dal Memorandum — volutamente distinte da “garanzie” vere e proprie — mancavano di meccanismi vincolanti di enforcement. Le rassicurazioni di non ricorrere alla forza, di astenersi da coercizioni economiche e di consultarsi in caso di crisi erano, in sostanza, dichiarazioni politiche prive di valore giuridico cogente.

Il processo di denuclearizzazione ucraina rappresenta un caso paradigmatico delle opportunità e dei limiti della diplomazia post-Guerra Fredda. Il Processo Trilaterale tra Stati Uniti, Russia e Ucraina fu, almeno nelle intenzioni, un importante esempio di cooperazione multilaterale: permise di affrontare una delle principali sfide della dissoluzione sovietica, rafforzò la statualità ucraina, fornì a Washington una lezione preziosa sulle dinamiche interne dell’ex spazio sovietico e cercò di gettare le basi per un nuovo sistema di sicurezza condivisa.

Tuttavia, la successiva violazione del Memorandum di Budapest da parte della Russia ha drammaticamente evidenziato i limiti di quelle garanzie politiche. L’incapacità di proteggere l’Ucraina ha messo in discussione la credibilità degli strumenti su cui si fonda il regime di non proliferazione nucleare.[16] La previsione di John Mearsheimer, che già nel 1993 metteva in guardia contro i rischi di una denuclearizzazione senza un deterrente credibile, si è tragicamente avverata.[17]La crisi ucraina ha mostrato che, senza strumenti vincolanti e meccanismi di enforcement, anche i migliori intenti diplomatici possono crollare di fronte alla logica della forza. La sfida futura sarà dunque quella di costruire architetture di sicurezza più robuste, capaci non solo di promuovere il disarmo, ma anche di garantire concretamente la sovranità e la sicurezza degli Stati che vi aderiscono.

Augusto Tamponi


[1] Magocsi Paul R., A History of Ukraine: The Land and Its Peoples, Toronto, University of Toronto Press, 2010.

[2] Budjeryn, Mariana, Inheriting the Bomb: The Collapse of the URSS and the Nuclear Disarmament of Ukraine, John Hopkins University Press, 2022.

[3] ibidem.

[4] Corin Eli, Presidential Nuclear Initiatives: An Alternative Paradigm for Arms Control, The James Martin Center for Nonproliferation Studies, February 29, 2004. nti.org.

[5] Koch Susan J., The Presidential Nuclear Initiatives of 1991–1992, Case Study 5, Center for the Study of Weapons of Mass Destruction, Washington, D.C.: National Defense University Press, September 2012.

[6] Ellis Jason, The ‘Ukrainian Dilemma’ and US Foreign Policy, in “European Security” 3, no. 2 (1994).

[7] Walker William, Nuclear Weapons and the Former Soviet Republics, in “International Affairs” (Royal Institute of International Affairs 1944-) 68, no. 2 (1992): 270.

[8] Protocol to the Treaty between the United States of America and the Union of Soviet Socialist Republics on the Reduction and Limitation of Strategic Offensive Arms, U.S.-Russia-Ukraine-Kazakhstan-Belarus, May 23, 1992, S. Treaty Doc. No. 102-32 (1992).

[9] Reiss Mitchell, Bridled Ambition: Why Countries Constrain Their Nuclear Capabilities, Washington, D.C.,Woodrow Wilson Center Press, 1995.

[10] Pifer Steven, The Trilateral Process: The United States, Ukraine, Russia, and Nuclear Weapons, Brookings Arms Control Series Paper 6, Foreign Policy at Brookings, May 2011

[11] van Ham Peter, Ukraine and Russia: A Troubled Relationship, In “Ukraine, Russia and European Security: Implications for Western Policy”, European Union Institute for Security Studies (EUISS), 1994.

[12] Reiss Mitchell, Bridled Ambition.

[13] Budjeryn Mariana, The Power of the NPT: International Norms and Nuclear Disarmament of Belarus, Kazakhstan and Ukraine, 1990-1994, PhD diss., Central European University, Budapest, Hungary, 2016

[14] Trilateral Statement by the Presidents of the United States, Russia, and Ukraine, January 14, 1994. In The National Security Archive. Washington, D.C., The National Security Archive, 1994.

[15] Memorandum on Security Assurances in connection with Ukraine’s accession to the Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons, December 5, 1994.

[16] Yost David S, The Budapest Memorandum and Russia’s Intervention in Ukraine, in “International Affairs “(Royal Institute of International Affairs 1944-) 91, no. 3 (2015).

[17] Mearsheimer John J, The Case for a Ukrainian Nuclear Deterrent, in “Foreign Affairs” 72, no. 3 (1993), 50–66.

Tags: RussiaStati UnitiUcraina
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