La morte di Papa Francesco segna un momento cruciale per il futuro della Chiesa cattolica e delle sue relazioni globali. In un mondo diviso tra universalismo morale e nazionalismi identitari, il confronto tra Roma e Mosca riflette due modelli di fede e geopolitica sempre più in contrasto.
La recente scomparsa di Papa Francesco segna la fine di un pontificato eccezionale per la Chiesa cattolica e apre interrogativi profondi sul ruolo futuro della Santa Sede in un mondo attraversato da fratture sempre più accentuate. Non si tratta solo di un cambio di leadership religiosa: la figura del papa, soprattutto nel contesto contemporaneo, ha assunto un rilievo politico e geopolitico che supera i confini ecclesiastici. Un segnale eloquente arriva dal messaggio di cordoglio inviato dal Patriarca Kirill, che ha reso omaggio a Francesco come difensore dei valori cristiani, ma ha evitato ogni riferimento alla sua opposizione alla guerra in Ucraina, mostrando così una chiara strumentalizzazione della sua figura. Francesco ha incarnato una linea innovativa, proponendo un cattolicesimo meno centrato sull’Occidente e più attento alle sofferenze e alle aspirazioni delle aree marginalizzate del mondo, portando così il Vaticano a essere percepito come un attore globale di primo piano, non solo per i credenti ma per l’intero sistema internazionale.
Francesco è stato il primo papa proveniente dal Sud globale e ha saputo imprimere una direzione nuova alla Santa Sede: ha spostato il baricentro del potere vaticano da una logica eurocentrica e spesso allineata agli interessi occidentali a una prospettiva più inclusiva e globale. Tra le sue azioni diplomatiche più significative si ricordano la mediazione per la normalizzazione dei rapporti tra Stati Uniti e Cuba, il riconoscimento ufficiale dello Stato di Palestina, la firma dello storico accordo con la Cina sulla nomina dei vescovi e un costante impegno per il dialogo interreligioso, in particolare con il mondo islamico. A livello simbolico e pratico, questi interventi hanno contribuito a costruire l’immagine di un papa “pacificatore” e di un Vaticano capace di agire come mediatore credibile anche in contesti estremamente polarizzati. Uno dei passaggi più delicati del pontificato di Francesco è stato il tentativo di mantenere una posizione di equilibrio rispetto al conflitto russo-ucraino. Papa Francesco ha sempre evitato di nominare esplicitamente Mosca come aggressore, preferendo condannare “tutte le guerre” e mantenere aperto uno spazio per il dialogo e la mediazione. Questa scelta, ampiamente criticata nei Paesi occidentali e in Ucraina, è stata però coerente con la sua visione diplomatica: un approccio universale e morale, svincolato dalle logiche dei blocchi geopolitici e più vicino alla sensibilità del Sud globale, spesso critico verso la narrativa atlantista.
In questo quadro si colloca anche il complesso rapporto con la Chiesa ortodossa russa. L’incontro storico del 2016 tra Papa Francesco e il Patriarca Kirill, avvenuto a L’Avana, rappresentò il primo nella storia tra un vescovo di Roma e un capo della Chiesa ortodossa russa. La dichiarazione congiunta allora firmata auspicava una cooperazione per la difesa dei cristiani perseguitati e dei valori tradizionali. Tuttavia, questo avvicinamento aveva un carattere soprattutto simbolico, e le divergenze si sono acuite con l’inizio della guerra in Ucraina. Kirill ha assunto una posizione apertamente giustificazionista verso l’invasione russa, definendola una battaglia “metafisica” contro l’eresia dell’Occidente e la sua decadenza morale. Il Patriarcato di Mosca si è così confermato non solo come custode della fede ortodossa, ma come strumento al servizio della narrazione imperiale russa, in perfetta simbiosi con l’apparato ideologico del Cremlino.
La dottrina del Russkijmir – il “mondo russo” – è diventata una potente arma culturale e diplomatica: una narrazione che presenta la Russia come portatrice di una civiltà superiore, radicata nei valori ortodossi e contrapposta all’Occidente materialista e corrotto. Emergono dinamiche che mostrano come il Patriarcato stia costruendo, all’interno della società russa, un’idea di “guerra santa” in cui religione, storia e politica si fondono in una visione messianica. L’ortodossia non è più solo una fede spirituale: diventa cultura nazionale, ideologia di Stato, strumento di coesione interna e legittimazione dell’aggressività internazionale.
A confronto, la Chiesa cattolica guidata da Papa Francesco ha rappresentato un cristianesimo orientato al superamento delle frontiere – religiose, culturali, politiche – con al centro la dignità umana, la giustizia sociale e la pace. La cosiddetta “geopolitica della misericordia” ha privilegiato l’ascolto degli esclusi e delle vittime della globalizzazione, promuovendo un cattolicesimo capace di parlare a chi si trova ai margini, non solo geograficamente ma anche socialmente. Questo modello ha trovato particolare eco nelle aree del Sud globale, dove la Santa Sede viene percepita come un attore autonomo, non allineato ai blocchi geopolitici dominanti.
Eppure, l’influenza della Chiesa cattolica nel mondo multipolare appare sempre più fragile. Mentre Mosca sacralizza la politica e rafforza la propria influenza nei contesti autoritari e conservatori – dai legami con Serbia, Armenia e Siria fino ai contatti con movimenti reazionari in Europa e negli Stati Uniti – il Vaticano sembra perdere peso specifico, ostacolato non solo da forze esterne, ma anche da resistenze interne. Non mancano infatti all’interno della Chiesa cattolica voci critiche verso l’approccio di Francesco, accusato di essersi concentrato troppo sul dialogo e sulla misericordia a scapito della chiarezza dottrinale e della fermezza nella difesa della fede.
Il dialogo tra cattolici e ortodossi, già segnato da secoli di diffidenza reciproca, ha conosciuto un’apparente apertura solo negli ultimi decenni, soprattutto dopo la fine dell’Unione Sovietica. Tuttavia, anche i momenti di maggiore avvicinamento, come l’incontro del 2016, hanno mostrato limiti evidenti. Non sono mancate critiche nel mondo ortodosso, dove si temeva un cedimento al primato papale, e nel mondo cattolico, dove si parlava di una diplomazia vaticana troppo accomodante, poco attenta alle istanze delle chiese locali, in particolare di quella greco-cattolica ucraina. Con l’invasione dell’Ucraina, le posizioni si sono cristallizzate: Kirill si è schierato apertamente con il Cremlino, mentre il Vaticano, pur criticando l’aggressione, ha evitato attacchi diretti al Patriarcato, cercando di mantenere formalmente aperto un canale di dialogo. Il controverso incontro virtuale tra Francesco e Kirill nel marzo 2022, durante il quale il Papa ha definito il patriarca un “chierico di Stato”, ha evidenziato le difficoltà di mantenere un rapporto non compromesso. Tuttavia, la Chiesa cattolica non ha mai rinunciato del tutto a un approccio dialogico, come dimostrano la nomina del cardinale Matteo Zuppi come inviato speciale per missioni di pace e i continui appelli del papa per il popolo ucraino.
Il futuro post-Francesco si presenta denso di incognite e sfide decisive per la Santa Sede. La nomina di Papa Leone XIV, primo papa nordamericano e secondo proveniente dalle Americhe, segna già una svolta significativa per il futuro della Chiesa cattolica. Leone XIV porta con sé un bagaglio multiculturale e una sensibilità maturata tra Stati Uniti e Perù, che potrebbe imprimere una nuova direzione alla Santa Sede. Le sue origini e il suo profilo internazionale lasciano intravedere la possibilità di un rafforzamento della linea universale e inclusiva tracciata da Francesco, pur con uno sguardo particolare ai rapporti tra Nord e Sud del mondo. A Mosca, il presidente Vladimir Putin ha espresso le sue congratulazioni, mentre il Patriarca Kirill ha definito l’inizio del nuovo pontificato un “momento storico particolare”, segnato da sfide culturali ma anche da “segni di speranza”. Sebbene Kirill non abbia esplicitato a cosa si riferisse, è plausibile che alludesse agli sforzi diplomatici, in particolare statunitensi, per porre fine al conflitto in Ucraina.
Questo segnale apre un margine di dialogo che, seppur fragile, rappresenta una novità interessante rispetto alla fase di tensione culminata nel 2022, quando la Chiesa ortodossa russa aveva aspramente criticato Papa Francesco per aver ammonito Kirill a non trasformarsi nel “chierichetto di Putin”. Papa Leone XIV si troverà dunque a gestire una sfida complessa: preservare i canali di dialogo interecclesiale senza sacrificare la coerenza morale e la voce profetica della Santa Sede. Il futuro della diplomazia vaticana dipenderà dalla capacità del nuovo papa di riaffermare la “geopolitica della misericordia” in un mondo polarizzato, rafforzando il ruolo del Vaticano come attore globale e portatore di pace.
Virginia Gatto