La Russia celebra l’80° anniversario della Vittoria sul nazifascismo. Sulla Piazza Rossa non è isolata, ma lo spirito del 9 maggio viene sempre meno condiviso con l’Europa (che dovrebbe invece celebrarlo in prima linea).
Come ogni anno, almeno dal 2022 in avanti, il Giorno della Vittoria si carica anticipatamente di aspettative. Pronte ad essere smentite. Più volte si è creduto nell’improvvisa fine della guerra in Ucraina, dietro annuncio compiaciuto del presidente russo – del resto, tocca a lui decidere “quanto può bastare”, anche in termini di territori annessi. Troppo scontato, ma soprattutto prematuro.
Quest’anno, anziché sulla fine della guerra – che pure dovrebbe essere più vicina – le attese si sono concentrate sulle velate minacce proferite da Zelens’kyj sulla sicurezza della parata del 9 maggio. Cadute nel vuoto, per fortuna di tutti. La Piazza Rossa non ha registrato incidenti, e le violazioni del cessate il fuoco unilaterale voluto da Mosca si sono verificate in tutt’altri luoghi.
Ottanta, per la cronaca, secondo le dichiarazioni di Kiev. Ironia della storia, lo stesso numero dell’anniversario celebrato a Mosca, e in forma (e data) diversa in altri spazi europei. La differenza di fuso orario tra la capitale russa e il centro del continente ha creato le premesse – o meglio le giustificazioni – per una commemorazione separata, oltre che distinta nei toni e significati. La capitolazione della Germania nazista tra l’8 e il 9 maggio 1945 non poteva essere vissuta allo stesso modo da tutto il continente – diviso tra Alleati e collaborazionisti, per tacer degli sconfitti. E ancora oggi è così, con buona pace di chi vorrebbe dare alla Vittoria un messaggio universale.
A dire il vero, neanche nella stessa Russia la celebrazione è stata sempre uniforme, a dimostrazione di una storiografia meno lineare di quanto venga raccontata. Istituito nello stesso 1945, il Giorno della Vittoria è stato fin da subito depennato dalle festività ufficiali – per la rivalità tra Stalin e Žukov, pare – per riapparire soltanto 20 anni dopo. Dopo, un decrescendo di interesse – parallelo alla smitizzazione strisciante degli apparati sovietici – fino all’oblio. Infine il recupero di El’cin (obbligato nel 1995 per la ricorrenza dei 50 anni) e la definitiva riabilitazione per mano di Putin, che ne farà uno dei propri cavalli di battaglia propagandistici (accompagnato, ad ogni modo, da un genuino trasporto popolare per l’iniziativa).
Il 9 maggio è la festa civile più importante di Russia, ma la Russia non la vuole solo propria. Ad accompagnare le celebrazioni vi è sempre un certo numero di delegazioni, più o meno folto. Immancabili i rappresentanti delle ex repubbliche sovietiche, o almeno di quelle – nel Caucaso e in Asia centrale – che non hanno ancora peccato di revisionismo. Ben diversa la situazione tra le ex repubbliche in Europa – qui soltanto la Bielorussia di Lukashenko fa presenza fissa.
La festa è sovietica, ma il suo portato è universale. Gli inviti del Cremlino sono rivolti a tutti, nell’ingenua convinzione che la fine della Seconda guerra mondiale possa costituire un patrimonio condiviso. Rispondono, però, quasi solo gli alleati di Mosca, almeno da quando la guerra d’Ucraina ha scavato un fossato col resto del continente europeo. E la geografia dei Paesi rappresentati è un’utile cartina di tornasole per verificare lo stato di salute della diplomazia russa. Il suo isolamento, reale o percepito.
Tutto sommato, quello presente non è il momento peggiore per Mosca. All’orizzonte si intravede una schiarita, specie nei rapporti con gli Stati Uniti – fortemente condizionati, comunque, dalle trattative sull’Ucraina. Le delegazioni straniere non sono mancate, e si è persino aperta una breccia nel fronte europeo – con la contestata partecipazione del leader slovacco Fico. Proficui poi i colloqui con il Brasile di Lula e l’Egitto di al-Sisi, tra gli altri. Ma più di ogni altra cosa il rapporto con Xi Jinping, pronto all’ennesimo salto di qualità.
La Cina infatti, in una dichiarazione congiunta con Mosca ha evidenziato per la prima volta la necessità di “rimuovere le cause profonde” del conflitto in Ucraina, vale a dire l’espansionismo aggressivo (o percepito come tale) della Nato. A poco, in questo senso, serviranno i trenta giorni di tregua che i principali partner europei di Kiev stanno cercando di imbastire (ammesso che ci riescano). Anzi, l’iniziativa è pure contraria, in linea di principio, a quanto espresso fino ad ora da Mosca, ovvero la scarsa simpatia verso qualsiasi ipotesi di tregua non duratura (utile secondo i russi solo ad approvvigionare di armi l’Ucraina).
Mosca vuole la sua Vittoria, anche se stavolta potrà condividerla con altri alleati – come la Corea del Nord e l’Iran, tra i più attivi suoi sostenitori nello sforzo bellico contro Kiev. Il vero successo, però, non lo otterrà in Ucraina. Bensì col ritorno a una memoria condivisa con il continente cui si fregia di appartenere.