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Home Economia

Pechino non è Mosca. Perché non siamo di fronte a una nuova “guerra fredda”

di Gennaro Mansi
8 Dicembre 2020
in Economia, Politica estera russa
Tempo di lettura: 7 mins read
krusciov-kennedy.jpg

Tentati dalle analogie storiche, molti osservatori sorvolano sulle differenze strutturali tra l’attuale competizione sino-statunitense e quella del secolo scorso tra Washington e Mosca. Due concetti chiave denotano l’assenza di linearità del nuovo scontro bipolare: ideologia e supremazia.

Un riflesso pavloviano dell’acuirsi dello scontro tra Stati Uniti e Cina – effetto della pandemia da Covid-19 verosimilmente destinato a perdurare oltre l’infezione stessa – è stato il proliferare di analogie con quello che a molti è parso il suo precedente diretto: la guerra fredda sovietico-statunitense, la coesistenza pacifico-competitiva che dettò l'”equilibrio del terrore” per metà dello scorso secolo[1].

Prima ancora di ipotizzare una sua ipotetica reiterazione in epoca contemporanea, tuttavia, va chiarito cosa si intenda per “guerra fredda”. Il termine può essere inteso latissimo sensu come qualsiasi conflitto di grande portata che, malgrado in grado di scoppiare in qualsiasi momento, sia rimasto latente – ed in tal caso (almeno sinora) il paragone potrebbe teoricamente calzare.

Se ne potrebbe però anche dare una definizione molto più circoscritta, rinvenendone gli elementi essenziali nella contrapposizione basata su due fattori: l’ideologia (in primis) e la supremazia. Quello di supremazia, beninteso, è un concetto assai diverso dal dominio: nessuno Stato terrestre dispone oggi (né ha forse mai disposto) delle risorse necessarie a”dominare il mondo”stricto sensu – ragion per cui dal secondo dopoguerra ad oggi Washington ha preferito estendere la propria supremazia mediante un intricato sistema di alleanze politico-economico-militari ai livelli regionale e internazionale[2]. Ancora più essenziale è la componente ideologica, dal momento che la guerra fredda è stata manifestazione della “classica” politica di potenza, ma in maniera assai poco tradizionale. Essa ha difatti preso l’articolata forma di una competizione totalizzante tra modelli di organizzazione speculari: da una parte un sistema liberal-capitalistico fondato sull’economia di mercato, sul liberoscambismo e sulla libera iniziativa privata[3] (c.d. primo mondo); dall’altra il “socialismo reale” sovietico, basato sul dirigismo centrale e su di una quasi esclusiva preminenza statale in ambito economico, quale presunto baluardo contro le diseguaglianze plutocratiche del sistema capitalistico (c.d. secondo mondo).

Sotto questo aspetto, la fine dello scorso secolo ha ratificato a chiare lettere la prevalenza del primo modello, come testimoniato dalla serie di eventi che ne hanno caratterizzato il corso. Negli anni Ottanta, prima ancora della fine formale della guerra fredda, il Thatcherismo e la Reaganomics sancirono il successo politico delle teorie economiche neoliberiste e di quello che gli accademici australiani John Langmore e John Quiggin hanno poi polemicamente definito “fondamentalismo mercatistico”[4]. Quindi, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dell’ultimo decennio del secolo, la caduta del Muro di Berlino frantumò simbolicamente l’unità stessa del Patto di Varsavia, cantando il de profundis dell’esperienza sovietica. È difficile valutare le responsabilità che la perestrojka del segretario-presidente Gorbačëv ebbe in tale processo disgregatore (la cui concausa economica era già ben nota ai segretariati Malenkov, Chruščëv e Brežnev), ma la drammatica crisi finanziario-monetaria che colpì la Federazione russa del liberista El’cin nel 1998 evidenziò chiaramente la difficoltà moscovita a giocare subito con le “regole” del sistema occidentale – frutto di una conversione affrettata verso un modello di organizzazione antitetico a quello che da Lenin in poi aveva grossomodo retto il sistema sovietico.

Non tutte le ciambelle, però, vengono col buco. A dimostrarlo è la vicenda parallela relativa al secondo regime marxista-leninista per importanza. Negli stessi mesi in cui Gorbačëv diveniva membro supplente del Politburo sovietico, a Pechino Deng Xiaoping teorizzava infatti le “Quattro modernizzazioni” (in agricoltura, industria, difesa, tecnologia e scienza). Pochi decenni prima, tra le differenze che avevano diviso la dirigenza sovietica e l’establishment cinese-comunista erano stati l’anti-imperialismo cinese (che fosse esso di matrice statunitense o sovietica), oltreché la riluttanza di quest’ultimo ad adottare senza indugio la via “russa” alla modernizzazione/industrializzazione forzata, frutto della convinzione che tale modello di sviluppo industriale avesse bisogno di maggior tempo in un Paese a fortissima vocazione rurale come la Cina continentale. Dalle “Quattro modernizzazioni” scaturì poi una serie di riforme che avrebbero cambiato la natura stessa del regime pechinese, dall’idea di “società moderatamente prospera” (xiaokang) alla rivoluzione copernicana rappresentata dal “socialismo con caratteristiche cinesi” – che fu funzionale a consentire lo storico ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio agli albori del nuovo millennio (11 dicembre 2001). Le profezie cassandriche sull’imminente crollo “alla sovietica” della Repubblica popolare sono peraltro rimaste tali[5], avendo la Cina intrapreso un cammino di sviluppo economico con pochi paragoni nella storia delle società umane[6].

Joe Biden brinda al Presidente cinese Xi Jinping in occasione di un pranzo di Stato nel settembre 2015
Joe Biden brinda al Presidente cinese Xi Jinping in occasione di un pranzo di Stato nel settembre 2015

Ciò premesso, e tornando al quesito principale, bisogna chiedersi se la guerra fredda sovietico-statunitense sia effettivamente comparabile con lo scontro tra Pechino e Washington – assumendo come parametri i criteri di predominanza e ideologia.

Quanto alla predominanza, il dilemma concerne l’effettiva volontà cinese di “sostituirsi” agli Stati Uniti. Chi opta per la tesi positiva, punta su progetti di vasta scala quali “One Belt, One Road“; quanti, al contrario, sposano l’ipotesi opposta ritengono che lo scontro in atto non sia per forza categorizzabile come manifestazione della “trappola di Tucidide”[7], dal momento che l’alternativa all’egemonia statunitense (o ciò che ne è rimasto) non è necessariamente un’equivalente egemonia cinese, quanto piuttosto un più pronunciato multipolarismo e/o multilateralismo, specie a livello regionale. Ipotesi, questa, che a quanto pare è quella che ha spinto Palazzo Chigi a firmare il memorandum d’intesa con il Dragone nel marzo 2019[8]. Più che coltivare (insostenibili) progetti egemonici, scopo della Cina sembra comunque essere quello di diventare “padrona” di un’area, l’Asia orientale, che ha storicamente egemonizzato culturalmente – a partire da Taiwan – per poi sedersi a pieno titolo tra i “grandi” del sistema internazionale con dignità di pare.

Decisivo è infine il nodo relativo all’ideologia. Differentemente da quella sovietica, l’economia cinese è pienamente integrata in quel sistema economico globale originariamente delineato a Bretton Woods. E quando la presidenza Trump, riprendendo un filone già flebilmente accennato nell’epoca obamiana, ha denunciato l’ordine internazionale per essersi ritorto proprio contro i suoi fautori statunitensi, Pechino è financo arrivata a raccontarsi quale ultimo vero “guardiano” del multilateralismo[9]. La Cina si attiene, adattandole a sé, a quelle “regole del gioco” statunitensi che l’URSS si era platealmente riproposta di stravolgere tout court nel secolo scorso (almeno a parole). Ciò rende lo scontro attuale diverso dalla guerra fredda, ma per certi versi anche più imprevedibile.

Ancora una volta, insomma, Pechino ha saputo adattare la forma di un sistema esterno (prima il modello sovietico di marxismo-leninismo, poi il paradigma statunitense di capitalismo) a caratteristiche intrinsecamente cinesi – date oggi da un preponderante ruolo del Partito comunista cinese sull’economia nazionale, marchio di fabbrica di quel “capitalismo di Stato” recentemente palesato dalla sospensione imposta da Xi Jinping all’IPO del colosso tecnologico Ant di Jack Ma[10]. Il capitalismo di Stato, però, non è però né un’invenzione recente, né una scoperta dei cinesi (che peraltro ne sono attualmente i principali esperti). Ma, soprattutto, è distante anni luce da quella componente emancipatrice che per mezzo secolo rese il modello sovietico la principale – se non proprio unica – alternativa al capitalismo.

[1] In questi termini si esprimono, tra gli altri: Gideon Rachman, “A new cold war: Trump, Xi and the escalating US-China confrontation,” Financial Times, 5 ottobre 2020, https://www.ft.com/content/7b809c6a-f733-46f5-a312-9152aed28172; Rick Gladstone, “How the Cold War Between China and U.S. Is Intensifying,” New York Times, 22 luglio 2020, https://www.nytimes.com/2020/07/22/world/asia/us-china-cold-war.html; Giampiero Massolo, “USA-Cina, chi paga il conto della guerra fredda,” Repubblica, 25 luglio 2020, https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/07/24/news/usa-cina_chi_paga_il_conto_della_guerra_fredda-262815294/; Guido Santevecchi, “Nuova Guerra Fredda fra Stati Uniti e Cina: e se Xi Jinping fosse come Krusciov?,” Corriere della Sera, 15 luglio 2020, https://www.corriere.it/esteri/20_luglio_15/nuova-guerra-fredda-stati-uniti-cina-se-xi-jinping-fosse-come-krusciov-c3fd550a-c69f-11ea-a52c-6b2a448f1d2c.shtml.

[2] Oltre alla NATO e al sistema di Bretton Woods, altro esempio è dato dall’Alleanza per il progresso nell’emisfero occidentale.

[3] Che nell’immediato dopoguerra era peraltro altresì funzionale alle esigenze di produzione dell’economia statunitense.

[4]John Langmore e John Quiggin, Work for All: Full Employment in the Nineties (Melbourne: MUP, 1994).

[5] Tra le quali quella formulata nel 2001 da Bill Clinton, e descritta in: Alessandro Aresu, “L’Europe doit apprendre le capitalisme politique,” Le Grand Continent, 10 novembre 2020, https://legrandcontinent.eu/fr/2020/11/10/capitalisme-politique/?fbclid=IwAR2QvMmXHMAu9Cd_DTI7UwbFtG9L9vX4hasrNyOfYs61-THVptRo1xfLa98.

[6] John Ross, “China is the greatest economic growth in human history,”Learning from China, https://www.learningfromchina.net/china-is-the-greatest-economic-growth-in-human-history/.

[7] Vedasi: Graham Allison, Destinati alla guerra: possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?, trad. Maria Clelia Zurlo (Roma: Fazi, 2018).

[8] Come si desume dalle considerazioni espresse da 10:29:40 in poi: Limes Rivista Italiana di Geopolitica, “VII Festival di Limes: Dialogo Caracciolo-Conte, incontro con le scuole…,” YouTube, 16 ottobre 2020, https://www.youtube.com/watch?v=h7WQywqIERA&ab_channel=PalazzoChigi.

[9]Michael Peel, Demetri Sevastopulo, Thomas Hale, e Camilla Hodgson, “Xi seeks to cast China as guardian of global order,”Financial Times, 19 maggio 2020, https://www.ft.com/content/411920bf-3ae9-47ae-9829-1f3067347237.

[10] Jing Yang e Lingling Wei, “China’s President Xi Jinping Personally Scuttled Jack Ma’s Ant IPO,” Wall Street Journal, 12 novembre 2020,https://www.wsj.com/articles/china-president-xi-jinping-halted-jack-ma-ant-ipo-11605203556.


Tags: CinaGuerra freddaIdeologiaStati UnitiURSS
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Gennaro Mansi

Gennaro Mansi

Coordinatore del desk Russia. Gennaro è un analista di diritto, geopolitica ed economia dell’Eurasia. Si occupa in particolare della regione post-sovietica europea e delle relazioni tra Russia e Occidente. Leggi i suoi articoli anche su La Voce di New York e Filodiritto.

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