Le armi chimiche stanno diventando l’oggetto di una contesa sempre più serrata tra Russia e Occidente. La prima è accusata di appoggiare (in Siria) o mettere in atto lei stessa (Skripal’) l’utilizzo delle suddette armi. Il secondo, invece, utilizza la retorica dei diritti umani per recuperare (tardivamente) terreno in Medio Oriente. In attesa di accertare la verità (che interessa realmente a pochi) l’escalation militare rischia di mettersi già in moto.
Uno spettro si aggira per il Medio Oriente: lo spettro del relativismo. O, se vogliamo, del doppiopesismo, ormai malcelato da un tradizionale – quanto illusorio e tardivo – richiamo alla difesa dei diritti umani.
Una dinamica sempre più lampante, in Siria. Da una parte assistiamo alla preoccupazione e alle condanne per il reiterato utilizzo delle armi chimiche, dall’altro al pressoché totale disinteresse per le sorti dei civili uccisi con altre modalità, evidentemente meno evocative del sarin o del cloro.
Il cosiddetto “Occidente“, che in Siria significa Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna , è stato praticamente assente dalla più grave guerra civile mediorientale di questo nuovo secolo.
L’incapacità di dare un seguito militare alle linee rosse dichiarate, resasi evidente con la precisa scelta di Barack Obama di tirarsi indietro nel momento diplomaticamente più critico del conflitto (settembre 2013), in ossequio al principio cardine della sua politica estera (“don’t do stupid shit“), ha smontato pezzo per pezzo l’attendibilità e l’autorevolezza dell’Occidente nella regione. Relegando, tra l’altro, ai manuali di storia la memoria di un dominio (semi)coloniale incapace di mantenere un legame politico e culturale attuale (com’è avvenuto invece in altre parti del mondo, basti pensare al Commonwealth britannico o all’Africa occidentale francese).
L’atteggiamento occidentale verso la Siria, intesa sia come il regime di Assad sia come il nucleo di una crisi umanitaria senza apparente fine, è stato a dir poco incostante, contraddittorio e perfino ipocrita.
Persa ogni possibilità di incidere sulla conclusione di un conflitto in cui non ha quasi più voce in capitolo (i negoziati di Ginevra sono stati sovrastati da quelli “russocentrici” di Astana), l’Occidente ha dimenticato la crisi per anni, rispolverandone l’attualità solo in occasione delle (ormai frequenti) denunce di utilizzo di armi chimiche sul suolo siriano.
Su di esse, non è mai stato facile stabilire la verità. Almeno non nei tempi brevi, quelli richiesti da azioni dimostrative contro il regime di Assad in risposta immediata alle presunte violazioni del diritto internazionale bellico.
Nel 2013 il massacro della Ghouta (nel quale le armi chimiche provocarono la morte di 1300 persone) mise in moto sia la diplomazia che gli eserciti (prima del summenzionato stop di Obama) senza attendere il verdetto degli accertamenti, e ad oggi sembra che tali armi siano state impropriamente attivate da ribelli vicini all’Arabia Saudita.
Nei giorni scorsi si è riproposta una vicenda non dissimile: a Douma è stato denunciato l’ennesimo attacco chimico, e il principale indiziato è ancora una volta Assad (benché, rispetto a cinque anni fa, lo scenario militare e diplomatico sia fortemente mutato).
A dispetto di quanto si possa credere, le armi chimiche non sono un “plus” inutile e controproducente dell’arsenale di Assad. Sebbene non gli conferiscano alcun particolare vantaggio tattico o strategico, nella sua ormai inarrestabile avanzata contro i ribelli, non è da escludere un loro utilizzo “razionale”, nell’ottica più sociale che militare di una strategia del terrore. Per non parlare dei contraccolpi diplomatici di tali azioni: ogni volta si conferma sempre di più l’impunità del presidente siriano, direttamente proporzionale all’impotenza della comunità internazionale che vorrebbe fronteggiarlo.
Dunque la tesi dell’utilizzo delle armi chimiche da parte di Assad non perde credibilità con l’assunzione (puramente occidentale e “liberale”) di una loro inutilità pratica sommata a un ulteriore danno di immagine per il regime siriano (che non ha certo più bisogno di legittimarsi agli occhi delle cancellerie europee).
L’incapacità di dare un seguito militare alle linee rosse dichiarate ha smontato pezzo per pezzo l’attendibilità e l’autorevolezza dell’Occidente nella regione.
Cupcake Ipsum, 2015
Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze, non è da escludere nemmeno il contrario, ovvero la versione russo-siriana degli eventi per cui alla base degli attacchi vi sia una precisa volontà politica, da parte occidentale: la ricerca di un pretesto – magari più credibile della “pistola fumante” escogitata per l’Iraq nel 2003 – che dia il via libera a un intervento NATO. Una tesi avanzata anche da voci autorevoli in Italia e rafforzata dall’esigenza, per alcune potenze, di tornare a farsi sentire in una Siria dal quale si è stati presto esclusi (i francesi) o marginalizzati (gli statunitensi).
Se è vero che proprio qualche giorno fa la Russia ha posto il veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, impedendo un’indagine internazionale sull’accaduto e dunque scatenando la reazione occidentale, è anche vero che quest’ultima sembra sproporzionata, scomposta (non si è mai visto un messaggio del genere da parte di un presidente americano) e persino priva di una strategia di ampio respiro che non conduca ancora una volta verso il baratro. As usual, potremmo dire, dati i precedenti occidentali in Medio Oriente.
Quel che più colpisce, adesso, è l’utilizzo platealmente strumentale di accuse non verificate (o verificabili) a fini geopolitici e niente affatto umanitari, se non per facciata. E ciò in virtù di un diritto internazionale di cui comunque non si intravede più l’ombra da almeno sette anni, in Siria. Armi chimiche o meno (la grandissima parte delle vittime del conflitto è stata uccisa dalle forze di Assad e dai suoi alleati, ma non dalle sue armi chimiche, sebbene queste ultime facciano più scalpore di quelle convenzionali).
L’assenza di qualsiasi considerazione verso i risultati delle indagini sembra stia diventando il modus operandi di questi casi controversi.
L’affaire Skripal‘, che in comune con il caso di Douma ha l’utilizzo di armi chimiche, presenta infatti delle sinistre analogie. Nessuna indagine internazionale (se si esclude quella dell’OPAC, che ha appena confermato l’origine chimica dell’attacco ma non la nazionalità dei suoi esecutori) ha preceduto le forti mosse diplomatiche europee. E si è trattato, bisogna aggiungerlo, di un attacco sul suolo britannico, per il quale le possibilità di un inquinamento di prove dall’esterno sono ben più remote che in Siria.
Nei fatti, si rischia oggi una pericolosissima escalation militare sulla base di non si sa quali prove. Prove che tutti (persino gli stessi russi, a parti ovviamente invertite) affermano di possedere ma non ritengono di dover mostrare.
Il che, piuttosto, è a sua volta una prova del buio politico e strategico in cui stiamo brancolando da tempo.