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Home Politica e Società

Il comunismo dopo il comunismo: nella galassia della sinistra radicale russa

di Redazione
16 Settembre 2018
in Politica e Società, Politica interna e società russa, Russia
Tempo di lettura: 6 mins read
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Se non proprio un terremoto, è stato uno scossone. Il riferimento è alla fresca tornata elettorale del 9 settembre, che ha chiamato al voto i cittadini per il rinnovo degli enti locali in 80 distretti su 85. Russia unita, il partito fedele a Putin, soffre quasi ovunque con l’unica notevole eccezione di Mosca. A farne vantaggio è in una certa misura il Partito liberal-democratico di Russia (in verità né liberale né democratico, bensì ultra-nazionalista), ma chi ha davvero giocato la parte del leone è stato il Partito comunista della Federazione Russa. Merito della capacità di intestarsi le proteste contro la poco apprezzata riforma pensionistica preparata dal governo, nonostante i media occidentali diano un risalto alquanto sproporzionato alle pur rilevanti contestazioni guidate da Aleksej Naval’nyj.

Una boccata d’ossigeno per il partito guidato dall’inossidabile Gennadij Zjuganov, alla guida dal 1993. Fu proprio allora, a due anni dal crollo dell’Urss, che vari gruppi anti-capitalisti (perlopiù marxisti-leninisti, ma anche eterodossi) decisero di fermare la diaspora rossa: nacque così il più importante partito della sinistra russa, auto-nominatosi successore del defunto Partito comunista della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. Per di più Zjuganov tracciò subito una linea scettica verso l’intero periodo di Gorbačëv, guadagnando popolarità man mano che la transizione al capitalismo mieteva conseguenze drammatiche sul piano economico e politico. Non a caso, le elezioni presidenziali del 1996 riservarono al leder comunista un risultato sorprendente: al primo turno non riuscì a sorpassare l’uscente El’cin per un soffio (35,8% contro 32,5%), qualificandosi per un ballottaggio che aveva tutto il sapore di un referendum tra due modelli di società opposti. Zjuganov perse, ma ottenendo comunque un dignitoso 40,7%.

​Da allora il potere è passato senza soluzione di continuità da El’cin a Putin, che lo mantiene tuttora salvo un breve palleggio con Medvedev nel 2008-’12. Nel frattempo il sostegno elettorale del Partito comunista ha seguito una tendenza discendente, stabilizzandosi al di sotto del 20%. Le presidenziali di quest’anno sono state le prime senza Zjuganov, che comunque ha rivestito il ruolo di eminenza grigia nell’apparato di supporto al candidato ufficiale, l’imprenditore sociale Pavel Grudinin. Nonostante sia stato un risultato più roseo di quello pronosticato dai sondaggi, l’11,8% ottenuto è comunque la percentuale più bassa di sempre per i comunisti. Per questo motivo le contestazioni delle ultime settimane hanno risollevato il loro morale, sebbene i motivi della crisi rimangano vivi e cocenti: l’identità della sinistra e la sua frammentazione. A dire il vero questa affermazione potrebbe essere valida in molti altri contesti (quello italiano, per esempio), tuttavia a quasi trent’anni dalla sconfitta nella guerra fredda, in Russia certe problematiche sono giunte al parossismo.

L’identità, dicevamo. Zjuganov è stato abile a mescolare tra loro la classica dottrina marxista-leninista e il nazionalismo russo. L’obiettivo della rivoluzione armata è stato in realtà rimpiazzato da una transizione graduale al socialismo: prima lo smantellamento delle riforme avvenute dal 1991 ad oggi, quindi la progressiva estinzione dei rapporti di lavoro capitalistici a partire dalla grande impresa per finire con la piccola proprietà, che verrebbe tollerata più a lungo. Sebbene il modello economico di riferimento sia stato per molto tempo la pianificazione sovietica, negli ultimi anni il partito ha rivolto un’attenzione crescente al socialismo di mercato in stile cinese. Forse proprio in questo solco si inscrive la scelta di candidare un uomo d’affari come Grudinin.

Non tutti però condividono tale posizione. Specie negli ultimi anni, vi è stato un continuo fiorire di sigle dalle tendenze più varie: comunisti, anarchici, antifascisti. Questi si sono raccolti attorno a organizzazioni politiche, ma non solo. Recentemente il magazine radical statunitense Jacobin ha gettato luce su un mondo brulicante di vita, composto anche da centri studi, blog d’informazione e community virtuali su Facebook, Vkontakte o Telegram. Sono perlopiù rappresentativi degli intellettuali e delle frange più giovani della sinistra, che non hanno un passato sovietico da rimpiangere. Una parte di loro è ben poco sensibile al nazionalismo, né a quello di Putin né tantomeno alla sua versione rossa propugnata dal Partito comunista. E tra questi gruppi serpeggia il sospetto che la tolleranza del governo verso quest’ultimo sia dovuta al fatto che Zjuganov capeggi un’opposizione-fantoccio, non realmente intenzionata a scardinare il sistema di potere post-sovietico nonostante i roboanti proclami e l’iconografia rétro, capace di impressionare una fascia di popolazione che diventa sempre più anziana.

​La partita interna alla sinistra non si gioca principalmente sul terreno elettorale. L’unica altra formazione con la falce e il martello alle ultime presidenziali era Comunisti di Russia, guidata da Maxim Surajkin: il suo programma stalinista e la sua retorica aggressiva contro il presunto tradimento di Zjuganov e Grudinin ai valori del socialismo non sono stati convincenti e hanno fruttato appena lo 0,7%.

Tuttavia le cose cambiano quando si analizzano più attentamente le dinamiche territoriali. In molte regioni della Russia le organizzazioni della sinistra sono presenti come parti in causa nelle battaglie locali. Il Centro per la riforma economica e politica, una delle organizzazioni incluse nella rassegna di Jacobin, ha dichiarato che c’è una tendenza all’aumento della mobilitazione nel Paese. Tra gennaio e settembre 2017 sono stati organizzati 1.100 eventi di protesta, tre quarti dei quali avevano come oggetto questioni salariali, chiusura di impianti industriali, licenziamenti e inquinamento. Tutte tematiche in cui tali piccoli gruppi si spendono con grande impegno, sebbene il ristretto numero dei militanti e l’esiguità delle risorse non aiutino affatto.

La repressione governativa poi fa il resto: due di queste organizzazioni politiche, il Fronte di sinistra e il Fronte rosso, hanno unito gli sforzi e ripetutamente provato a essere riconosciute legalmente come partito. Sei tentativi tutti andati a vuoto per intoppi burocratici di ogni tipo, incluso il rifiuto dell’imposta di registrazione perché era stata pagata una cifra più alta di quella richiesta (!). A gennaio è stato disposto lo scioglimento del Sindacato interregionale dei lavoratori, la più promettente associazione indipendente di rappresentanza della forza-lavoro, con l’accusa di aver incassato fondi stranieri (ordine poi ritirato). D’altro canto il principale sindacato “istituzionale”, la Federazione dei sindacati indipendenti di Russia, vive di alterne fortune. Negli anni Novanta riuscì a passare indenne la transizione, nonostante i rapporti sempre peggiori con El’cin. Nel 1998-’99 provò a costituire una coalizione di centro-sinistra incardinata su soggetti come l’ex Primo ministro Evgenij Primakov e l’allora sindaco di Mosca Yurii Luzhkov, entrambi appartenenti a Patria, partito centrista che si sarebbe ben presto dissolto dentro Russia unita: nulla di particolarmente radicale, insomma, se aggiungiamo poi che anche durante gli anni di Putin il sindacato ha sofferto di una considerazione non altissima da parte del governo.

​Insomma, sembra che effettivamente a sinistra vi sia un perimetro che separa l’opposizione tollerata da quella posta sotto il mirino della repressione. Quale sia il fattore discriminante è difficile dirlo: sicuramente il sostanziale appoggio alla politica estera di Putin è una variabile importante, oltre alle dimensioni di massa su cui può contare il Partito comunista della Federazione Russa e probabilmente ad una certa disinvoltura con cui quest’ultimo ha imparato a muoversi quando ha a che fare con la macchina statale. D’altro canto l’ala più “movimentista” della sinistra avrà ben poche chance di far sentire la propria voce, almeno fin quando dovrà scontrarsi con gli apparati di Stato per ottenere anche i più banali riconoscimenti. C’è tuttavia un soluzione che potrebbe tornare utile sia al partito di Zjuganov che alla galassia anti-capitalista: che quest’ultima si infiltri all’interno del primo, rinnovandone fortemente la struttura, la strategia e probabilmente anche alcune tendenze ideologiche troppo ingessate. Le masse popolari sono potenzialmente disposte ad accogliere una tale innovazione: un sondaggio del 2014 condotto dal Levada Centre rilevava che il 40% dei russi si riconosce nei principi del socialismo, il 20% nel comunismo. Ma anno dopo anno l’eco dei fasti sovietici si indebolisce sempre di più e per rinfocolare una tale influenza culturale è più che mai necessario qualcosa di nuovo.

​Autore: Samuel Boscarello

Tags: comunismoelezionigoverno russoRussia
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