Il neopresidente Volodymyr Zelenskij ha vinto le elezioni parlamentari. Per la prima volta nella storia dell’Ucraina indipendente la maggioranza assoluta della Verkhovna Rada, il parlamento nazionale, è in mano allo stesso partito del Presidente. Una concentrazione di potere inedita, che dovrà fare i conti con la propria inesperienza, una Russia agguerrita e l’inquietudine degli oligarchi.
I cinque anni del governo Poroshenko sono stati ufficialmente archiviati. Eletto all’indomani di una tumultuosa sollevazione popolare, in un paese in crisi economica e scosso dalla guerra nell’Est, l’oligarca si era presentato come una figura moderata, pragmatica, capace di mettere ordine nei conti del paese. Un obiettivo, questo, raggiunto negli anni seguenti a prezzo di prestiti del FMI e dure misure di austerità. In crisi di consensi, Poroshenko si era così spostato progressivamente su posizioni sempre più nazionaliste e conservatrici, raccogliendo i propri sostenitori interni ed esterni attorno al pericolo russo. Una strategia che ha irrigidito un rapporto già difficile con il vicino orientale, occupato a sostenere i separatisti nel Donbass e ad estendere il proprio controllo sul mare di Azov. Inoltre, mentre gli standard di vita sono peggiorati e l’emigrazione aumentata, la minaccia sul confine orientale si è dimostrata un buon argomento per rimandare molte riforme, concepite dall’ex-Presidente come un mezzo per ottenere l’accesso all’UE e alla NATO. In questo senso, le riforme sono diventate in una certa misura un oggetto di scambio, da barattare in cambio di supporto economico, diplomatico e militare.
Zelenskij si è mantenuto su una linea pressoché opposta a quella di Poroshenko. L’intenzione dichiarata del nuovo Presidente è di tornare ad occuparsi dell’Est, affrontando Mosca in rinnovati negoziati di pace nel Donbass. Parallelamente, allentata la rigidità di una retorica di guerra più o meno permanente, Zelenskij si è mostrato più incline a considerare il processo di riforma come un fine, anziché come un mezzo. Sono due cambi di rotta importanti, che hanno suscitato movimento sia a Mosca che a Kiev.
Il rapporto con Mosca in questi mesi è imperniato su due questioni irrisolte: il rinnovo dei contratti del gas naturale e il Donbass stesso. Durante l’amministrazione Poroshenko entrambe le questioni erano ad un punto morto, ma dall’elezione del nuovo Presidente il Cremlino si è mosso, aumentando la pressione e guadagnando forza negoziale in vista del doppio confronto.
La prima questione in ordine di tempo riguarda il gas: i contratti che regolano i rapporti tra i due paesi in questo campo scadono il 1° gennaio 2020, e questa relazione è importante per entrambe le capitali. Per Mosca perché l’infrastruttura ucraina sarà ancora fondamentale per l’esportazione di gas verso l’Europa fino al completamento del raddoppio del gasdotto Nord Stream, prevista per il 2021. Anche successivamente a questa data, benché probabilmente ridimensionata, la via ucraina manterrà una sua importanza residua. Per Kiev invece il transito di gas è importante, perché fornisce entrate in preziosa valuta estera sotto forma di tasse di transito. Negli ultimi anni per la via ucraina sono passati dagli 82 ai 93 miliardi di metri cubi di gas (bcm), una porzione consistente dei circa 200 bcm che la Russia esporta verso i paesi UE. Questo traffico ha generato circa 3 miliardi € all’anno per le casse ucraine, che sono cruciali per scongiurare una recessione. Benché entrambi i paesi abbiano un forte interesse nel rinnovo del contratto di transito, rigidità politiche e una fitta agenda di elezioni e cambi al vertice hanno fatto tornare lo spettro di un’interruzione del flusso del gas a gennaio 2020, a meno che un accordo non venga trovato tra l’insediamento della Commissione Europea in autunno e la fine dell’anno.
La seconda questione, di respiro temporale molto più lungo, è quella del Donbass, dove un conflitto a bassa intensità continua ormai da cinque anni, rispecchiato dallo stagnare dei negoziati. Mentre sanare le ferite umane richiederà molti anni sulla strada della riconciliazione, la soluzione del conflitto riguarda due questioni di fondo: un problema economico, con un costo per la ricostruzione che viene stimato in almeno 10 miliardi €, ed il nodo dei rapporti tra Russia e Ucraina che, in prospettiva, riguarda anche i rapporti tra la Russia e l’Ovest più in generale. Il risultato che Mosca vorrebbe dai negoziati di pace è il reintegro del Donbass in Ucraina a condizioni di forte autonomia e il ritiro delle sanzioni occidentali, mentre ciò che teme è la persecuzione ai danni dei separatisti e il fardello economico di uno scontro prolungato. Dall’altra parte Kiev, che mira a riottenere il controllo dei propri confini formali, teme il ritorno di una regione popolosa, autonoma ed economicamente attiva con dei forti legami con la Russia, che la riporterebbe più vicina all’orbita di Mosca, oltre al timore che una volta tolte le sanzioni e ripreso il commercio a pieno regime con la Russia, l’Ovest sia più incline a dimenticarsi dell’Ucraina e sacrificarla sull’altare della buona convivenza con Mosca.
Il Cremlino ha messo in campo una serie di azioni con lo scopo di aumentare il proprio peso negoziale, in vista dell’imminente trattativa sul gas e in seguito alla posizione cautamente meno rigida espressa da Zelenskij riguardo le regioni orientali. Tra queste misure c’è la proposta di uno sconto sul prezzo del gas (che l’Ucraina ha cessato di acquistare direttamente dalla Russia a fine 2015) e il quasi contestuale embargo sui prodotti del petrolio, uno dei pochi settori in cui le importazioni dall’Еst erano ancora preminenti. Inoltre, è stato annunciato un canale preferenziale per l’ottenimento della cittadinanza russa per i residenti nelle entità separatiste, poi allargato a tutti i residenti del Donbass, compresa la parte controllata dal governo: un’azione, questa, volta ad avvicinare gli abitanti della regione sia simbolicamente che concretamente a Mosca. L’intenzione dichiarata da Zelenskij, per contro, è di contendere al Cremlino la regione in termini umanitari anziché militari, concentrandosi sul congelare il conflitto e raggiungere la popolazione locale con la promessa di investimenti e la proposta di riprendere il pagamento dei salari e delle pensioni, bloccati dal governo precedente.
Al di là delle manovre di avvicinamento al negoziato vero e proprio però, Il problema rappresentato dal Donbass ruota attorno al peso di Mosca nelle scelte ucraine. La strategia di Zelenskiy per risolvere questo impasse è quindi di scommettere non tanto sui termini formali del riassorbimento della regione in Ucraina, ma piuttosto sul tipo di paese che le aree separatiste troveranno una volta rientrate sotto il controllo di Kiev. È per questo che, benché pressato dall’esterno, l’obiettivo strategico del neo-presidente è interno, nel riformare un sistema economico, giuridico e politico tuttora dominato da una manciata di oligarchi.
Quale sia di preciso la strategia del Presidente per le riforme interne è più difficile dirlo. Oppositore vocale di corruzione e nepotismo, Zelenskij viene descritto come un campione di liberalizzazioni e deregolamentazione, benché finora abbia tenuto il grosso delle sue intenzioni il più vago possibile, così da capitalizzare al massimo sulla propria immagine senza rischiare di perdere sostegno. È probabile però che uno dei primi settori ad essere oggetto di attenzione del nuovo blocco di potere che si insedia in questi giorni sarà quello giudiziario, a un tempo cruciale per successivi sforzi di cambiamento e a lungo non riformato.
Così come il Cremlino si è mosso prima delle elezioni parlamentari, così anche i gruppi che hanno da perdere dalle intenzioni di Zelenskij hanno iniziato a adottare contromisure. Una spaccatura si è andata formando tra il Presidente e il suo entourage da una parte, e i membri della vecchia èlite dall’altra, che occupano in modo consistente le posizioni medie e alte nell’amministrazione pubblica e nelle aziende di Stato, ed in tutti quegli ambiti sui quali la vecchia classe politica si poggiava. Inquietudine e attivismo si sono verificati anche tra gli oligarchi: tra tutti Poroshenko, che è il più esposto e cui il risultato elettorale non ha probabilmente restituito sonni tranquilli, ma anche Ihor Kolomojskij. Quest’ultimo, proprietario del canale televisivo che ha lanciato la serie e la notorietà di Zelenskij, si trova in cattive acque per via delle accuse di riciclaggio e appropriazione indebita relative alla banca Privatbank, poi nazionalizzata. L’oligarca, sotto processo negli Stati Uniti, è impegnato nel cercare di riottenere la proprietà della banca, o un cospicuo risarcimento. Zelenskij sarà chiamato a decidere sulla questione a breve, chiarendo così sia i suoi rapporti con l’oligarca che ne ha favorito l’ascesa, che quelli con il Fondo Monetario, ostile a Kolomojskij.
Finora la più grande debolezza del neo-presidente, l’inesperienza, ne è stata anche il maggiore punto di forza. Zelenskij si è presentato come un candidato non compromesso, ed i suoi avversari hanno potuto attaccarlo solo sui pochi elementi da lui stesso forniti. Le liste del suo nuovo partito sono state formate con lo stesso criterio, accettando solo persone senza esperienza politica pregressa. L’iniziativa è stata conquistata da una nuova leva di politici, la prossima tappa: la formazione del governo.
Giulio Benedetti