Tante le rivalità storiche e attuali che dividono le due sponde del Mar Nero, ma tanti anche i punti in comune. Uno solo però è decisivo: l’isolamento dall’Europa (e dall’America).
Così vicine e al tempo stesso così distanti. Russia e Turchia differiscono per storia, cultura e società; rappresentano due modelli contrapposti di civiltà (Europa cristiana vs Islam politico con ambizioni di Sultanato) che per secoli si sono confrontati, anche duramente, sui campi di battaglia; influenzano o aspirano alla guida degli stessi territori, dal Mediterraneo all’Asia Centrale. Ingredienti perfetti per uno scontro permanente.
Eppure, sempre più spesso le due potenze vengono associate sui media e nel dibattito geopolitico, come se le attuali e limitate sponde di cooperazione potessero cancellare o anche solo compensare tutto il resto.
Tutto ciò è possibile per due ragioni, essenzialmente. La prima è data dalla contingenza del presente: non sbaglia chi vede nelle frequenti intese tra Mosca e Ankara – spesso “territoriali” e settoriali – lo spregiudicato tatticismo che è diventato quasi un marchio di fabbrica dei due presidentissimi. In altre parole, Putin ed Erdoğan sfruttano le mutevoli circostanze della realtà che li circonda (specialmente in Medio Oriente) per imporre il proprio gioco, sempre più spesso complementare e coordinato. Un assetto relativamente recente, messo alla prova nel conflitto siriano e ritentato (con minor successo finora, a dire il vero) in quello libico.
La seconda ragione è più profonda, e scava sia nella storia dei rapporti reciproci che nella stessa identità geopolitica dei due vicini. Un’identità, è bene subito precisare, forgiata dall’eterno dilemma dell’appartenenza euro-asiatica dei due Stati a tra(di)zione intercontinentale. In modo quasi inconscio, i due Paesi hanno fatto a gara per essere riconosciuti nel privilegiato club europeo, almeno da quando (XVIII secolo) l’appartenenza ad esso ha iniziato a significare essere alla testa del mondo, anche in senso di progresso scientifico e umano.
Va da sé che l’Europa, per esclusivismo antropologico e opportunismo geopolitico, ha più volte frustrato tali ambizioni. Costringendo i due nemici, un tempo acerrimi, a vivere una simile condizione – e dunque a specchiarsi, primo fondamento per un’alleanza o per il reciproco rispetto. Ciò avvenne ad esempio nei primi anni Venti del Novecento. Mosca e Ankara si erano combattute strenuamente fino a pochissimi anni prima, durante la Prima guerra mondiale, e inoltre s’erano distanziate ideologicamente per i loro due nuovi regimi (Ataturk, leader della Repubblica Turca, era fortemente anticomunista e quindi sulla carta nemico di Lenin). Eppure, l’umiliante isolamento dall’Europa post-Versailles portò i due Paesi a parlarsi.
Dinamiche che sembrano ripetersi, a cent’anni di distanza. Ecco infatti che, proprio al culmine della rivalità tra le due potenze – con l’abbattimento di un caccia russo, da parte della contraerea turca, nel novembre 2015 – Putin ed Erdoğan ritrovano il dialogo. Anche stavolta, il ramoscello d’ulivo è portato (involontariamente) dall’Europa: la mancata condanna del tentato golpe ad Ankara, unita al persistere delle sanzioni e delle tensioni con Mosca, sospinge ancor più di prima i due leader verso est, fino a incontrarsi e riconoscersi vittime delle stesse ostilità e preconcetti.
Buon viso a cattivo gioco, naturalmente. E non è tutto merito o colpa dell’Europa (o degli Stati Uniti). Russi e turchi si riconoscono in tante altre cose. A partire dal proprio passato imperiale, per restare nel campo della storia: la dimensione transfrontaliera delle proprie reti di lealtà locali, che per entrambi passano dall’Asia Centrale ai Balcani (convergenze pericolose), testimonia un’eredità territoriale e politico-culturale difficile a morire.
Sia Mosca che Ankara, inoltre, soffrono di una discrepanza tra ruolo e rango che le porta a sfidare lo status quo, percepito come sfavorevole ai propri interessi. Entrambe lottano per una maggiore libertà d’azione (specie i turchi all’interno della NATO) e per il riconoscimento delle proprie sfere d’influenza, in Europa meridionale, Medio Oriente e Africa. E poco importa se queste ultime spesso si sovrappongono, rischiando di portare allo scontro i due Paesi. Il pericolo viene evitato con una politica di consultazioni sempre più fitta, che tra l’altro ha il vantaggio di mettere in guardia l’Occidente e porlo di fronte – se non al fatto compiuto – ai propri errori.
In fin dei conti, si torna sempre lì: alle aspirazioni di riconoscimento da parte dell’Europa (principalmente per i turchi) e degli Stati Uniti (priorità per i russi). Oggi soffocate, o almeno coperte di rivalsa: troppi gli smacchi subiti e le delusioni di chi ha provato, senza mostrarlo troppo, a entrare nell’UE (Turchia) o nella NATO (Russia). Tentativi certamente insufficienti o comunque bruciati da alcune mosse improvvide (l’arretramento democratico ad Ankara e l’annessione della Crimea alla Federazione Russa, tra le altre cose). Ma che testimoniano una volontà di fondo di ancorarsi all’Occidente, nelle sue varie forme di aggregazione politica o militare, senza tuttavia perdere la propria identità e alterità. Missione impossibile: il senso di superiorità verso il mondo e quello di inferiorità verso l’Europa si amalgamano male, producendo effetti incomprensibili ai più.
Nemmeno il rinnovato, obbligato dialogo tra Russia e Turchia sembra poter costruire qualcosa di solido e duraturo. L’odore di tatticismo è arrivato persino oltreoceano, dove una Casa Bianca sempre più riluttante a intervenire nel Mediterraneo sembra aver implicitamente stabilito l’irrilevanza del dossier libico, e in parte di quello siriano (non così per la questione EastMed). A tranquillizzare gli americani su ogni ipotesi di alleanza stabile russo-turca non sono le considerazioni sulla preminenza dei rapporti con l’Occidente, all’interno delle due cancellerie – preminenza, come dicevamo, ormai molto offuscata. Gli Stati Uniti puntano invece sull’insostenibilità di un simile rapporto, sulla carta intralciato da troppi ostacoli: Siria, Libia, Egitto, Caucaso e Asia Centrale, senza contare l’eterna questione degli Stretti che tante guerre ha provocato fin dall’alba dell’età moderna.
Con ogni evidenza, Washington ignora il potenziale dinamitardo delle proprie azioni. Ovvero non si rende conto di quanto sia stata capace, insieme all’Europa, di unire anche se tatticamente due “amici impossibili”. Che pur di non soccombere sono disposti al ribaltamento degli schemi più consolidati e della propria storia (a cui tengono, com’è noto, tantissimo). Operazione non dissimile da quella in corso in Estremo Oriente, tra Mosca e Pechino: anche lì il perenne scontro tra l’Occidente e i russi sta portando a riavvicinamenti inusuali o illogici.
Resta da comprendere quali frutti rimarranno, in seguito a questo avvicinamento – oltre a quelli avvelenati lanciati verso l’America e l’Europa, chiaramente. In parte, verrebbe da dire, dipenderà dalla durata del dialogo. Il tempo ricuce molte ferite, ma è anche vero che le divisioni non riguardano i postumi degli scontri russo-ottomani, bensì le odierne ambizioni sovrapposte. Niente affatto trascurabili: soltanto limitandoci agli ultimi giorni, certe incrinature non sembrano facilmente sanabili.
Basilare, allora, un impegno lungimirante volto a chiarire i limiti dei propri raggi d’azione (se si vogliono raggiungere accordi duraturi, bisogna pur rinunciare a qualcosa) e a gettare le basi per qualcosa di meno superficiale e “scenico” – cioè studiato a tavolino per impressionare gli altri. Una sfida alla storia e a chi prescrive una rivalità eterna tra Turchia e Russia.