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Home Artico

L’Orso affila gli artigli, ma per difendere la tana

di Redazione
26 Novembre 2020
in Artico, Difesa, Energia e Ambiente, L'Orso Polare, Russia
Tempo di lettura: 6 mins read
Orso-Polare-colorata.jpg

Sicurezza e sviluppo artico possono prendere il largo solo blindando gli Stretti dalla Siberia a Bering. Prima puntata de L’Orso Polare, la rubrica artica di Marco Leone. In collaborazione con Osservatorio Artico.

 

Guerra Fredda, Secondo Atto

La stagione della Guerra Fredda sta tornando. Il cuscino protettivo a Ponente non è più tale. Bellicosi venti occidentali ne hanno rigirato la fodera. E ciò che un tempo era Est oggi è Ovest. Il ferro della Cortina non ha mai cessato di corrodersi, estendendo la ruggine fino a Kiev. La glaciale sentinella silenziosa settentrionale sta ammutinando. Nemmeno Generale Inverno può metterci una pezza questa volta. Chi avrebbe detto che sarebbe stato il caldo a minacciare la sicurezza e le fondamenta della sua tana…

Così, ciò che appare oggi è una evidente militarizzazione della costa nordica russa, narrata dallo storico nemico atlantico come fosse il prodromo di un Piano Overlord cirillico contro orsi polari, Inuit groenlandesi e canadesi, Sami scandinavi. Quando a Mosca servono dieci anni fiscali per eguagliarne uno di budget militare del Pentagono. Quando è proprio per incapacità di avere una comparabile crescita economica che l’URSS ha mostrato la gola allo Zio Sam, rischiando addirittura di esserne arruolata negli anni Novanta. Avere un imponente arsenale e il PIL della tranquilla Spagna fa capire che l’eclatante postura marziale della Russia è una necessità difensiva che grava sul futuro dello sviluppo nazionale.

L’amicizia con il Dragone cinese è doverosa. La Storia ha rovesciato sorti e ambizioni nell’Estremo Oriente. Un tempo le strategie militari cinesi erano tarate per difendersi in profondità dai lunghi artigli dell’Orso. Oggi sono le fiamme dello sviluppo di Pechino a lambire l’entroterra siberiano. La sinizzazione strisciante è un timore che serpeggia nei corridoi del Cremlino, conscio di contrapporre una demografia sfavorevole.

Al ché, Mosca non fa molto per rassicurare i dirimpettai europei. Anzi. Concentra forze nella Penisola di Kola, sonda le difese del Patto Atlantico forzando le Colonne d’Ercole del Giuk Gap, viola spazi aerei scandinavi, annuncia nuovi missili supersonici, risponde alle esercitazioni militari della controparte. Ormai la frequenza degli incontri (troppo) ravvicinati tra Su-27/35, Mig, bombardieri Tupolev e B-52, B1-B e F-22 sta tornando ai livelli della Guerra Fredda, gioco che le due armate non hanno dimenticato. Da ambo i lati, burocrazie e poteri securitari imponenti hanno bisogno di tenere alta l’asticella della tensione, dei finanziamenti governativi e del conseguente prestigio sociale. Ma non è dell’Artico occidentale che l’Orso è preoccupato.

UNCLOS ed eccezionalismo americano

Il motivo per cui Mosca installa basi a largo dei circondari di Nenetsia, Yamalia e Čukotka, del Territorio di Krasnoyarsk e della Repubblica di Jakuzia, ha un nome: UNCLOS. E un cognome: USA.

Il moderno trattato sulla Legge dei Mari, l’UNCLOS, protegge Mosca sulle pretese di sfruttamento economico fino a 350 miglia marine dalla costa,ma, diciamoci la verità, oltre le 12 miglia chiunque può affacciarsi, purché non sia ritenuto una minaccia.

L’eccezionalismo americano con Trump ha mostrato palesemente il suo volto. Ma non illudiamoci che con Biden la musica cambi. Tosto, il nuovo presidente in pectore ha rammentato agli Alleati, e non solo, che “America Is Back Again“, che suona molto come il trumpiano “Make America Great Again“. Cambia la narrativa e la sfumatura, ma non la sostanza.

Ne sa qualcosa il Canada, fedele alleato nei Five Eyes, ma protagonista di una storica querelle con gli USA sul libero transito delle navi nel cosiddetto Passaggio a Nord Ovest. La libertà (propria) di navigazione è il pretestuoso e vetusto orpello rivendicato dagli States, che, peraltro, non hanno mai firmato l’UNCLOS.

La bussola delle recriminazioni di Washington segna inevitabilmente le nuove rotte russe. La “Nazione eletta dalla Storia” insidia le tranquille involuzioni dell’Orso nei suoi Stretti artici e non sono pochi i passaggi marittimi contestati a Mosca. La specialità della casa è creare scompiglio il più lontano possibile dal continente americano, preferibilmente in prossimità dei territori del nemico.

Passaggi artici contestati dagli USA in nome della libertà di navigazione

Bering deve rimanere largo

Ma la Russia non vuole una Taiwan e un cordone sanitario anche a nord. Le ultime esercitazioni navali artiche hanno interessato anche il quadrante pacifico con manovre sfociate nelle baie di Providenija e di Kresta. Obiettivo: Bering. Lo stretto deve essere navigabile. Cioè, non ostruibile da terzi (leggi, “gli USA”). Qualsiasi progetto di sviluppo energetico dell’Artico russo non può prescindere dallo Stretto di Bering.

Questo è il punto di passaggio dei flussi di gas tra Siberia, Cina e Giappone. E, forse, in futuro anche Corea del Sud. Cioè il mercato più promettente secondo le previsioni al 2040 dell’International Energy Agency. Mosca sta investendo molto e aprendo i suoi forzieri ai benedetti investimenti esteri (cinesi, nipponici e francesi, al momento) proprio per industrializzare e progredire il nord del paese, nel cui solo distretto di Yamalo-Nenets si estrae ben l’80% del gas russo.

Nonostante i recenti collegamenti infrastrutturali con il mercato cinese (Power of Siberia), diversi fattori rendono interessante l’LNG: il fatto di non essere vincolati ad un acquirente o a un fornitore di tubi; il processo di liquefazione che, riducendone il volume fino a 600 volte, agevola lo stipamento di grosse quantità nelle metaniere, abbattendo i costi di shipping; schemi di compravendita spot (“operazione a pronti”, in cui consegna, ritiro e pagamento avvengono immediatamente), più flessibili rispetto ai classici contratti pluriennali “take or pay” (in cui l’acquirente deve corrispondere comunque il prezzo di una quantità minima di gas, anche nell’eventualità che non la ritiri); la progressiva eliminazione delle “clausole di destinazione”, in cui il compratore non può rivendere il gas all’estero e il fornitore non può servire i concorrenti nazionali dell’acquirente.

Meno ghiaccio, più necessità di sovranità

La territorializzazione dell’Artide non è questione di risorse, tra l’altro ben definite nel diritto consuetudinario tra Z.E.E. e piattaforma continentale. L’exploiting in acque fredde offshore è il più costoso del settore è c’è un solo paese che ne ha sviluppato una ultradecennale capacità e profittabilità: la Norvegia.

Ogni futuro progetto industriale russo (con imprescindibili capitali stranieri) sarebbe green field, cioè da costruire da zero, con inevitabili investimenti a fondo perduto per almeno 5-10 anni. Ovviamente, in attesa del riscaldamento delle acque artiche. La Norvegia è pur giovata dell’onda lunga della corrente del Golfo. Dunque, è una questione di pura sovranità. E, insieme, di sviluppo economico.

Ormai anche i sassi sanno che sul GNL artico puntano Mosca e i suoi partner cinesi, giapponesi e francesi. Lo sviluppo delle regioni nordiche, non a caso, gode di estrema attenzione dalle parti del Cremlino, promotore di un apposito recente intendimento noto a tutti gli osservatori. Non certo un’avveduta diversificazione delle fonti di entrate statali derivanti dall’export, troppo sbilanciate sull‘oil. Ma non c’è motivo per rinunciare alla gallina dalle uova d’oro.

Volendo concludere, la pressione militare russa ad Ovest è segnale di deterrenza, a Nord di presenza, ad Est è salvaguardia di interessi economici vitali affinché l’Orso possa affrontare inverni in cui, comunque, non potrà permettersi sereni letarghi. L’Orso affila gli artigli, ma è per difendere una tana che si sta allargando.

Marco Leone


Tags: CinaFranciaGiapponeRussiaStati Uniti
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