Sono passati ormai più di sei mesi dalle elezioni che hanno segnato un punto di svolta nella storia bielorussa. Sebbene i nostri media abbiano praticamente smesso di seguire le vicende già da tempo, la situazione è ancora in evoluzione. Mentre la comunità internazionale alza la voce, Lukashenko pianifica la Bielorussia del futuro cercando aiuti sia in casa che a Sochi.
È il 9 agosto 2020. Una bandiera biancorossa sventola dalla finestra di un appartamento nel quartiere Moskovskij di Minsk. Dall’alto si scorge una fila di persone. Aspettano il proprio turno per votare in occasione delle presidenziali. Inizia così il documentario montato unicamente con spezzoni di video ripresi dai manifestanti. Una breve pellicola che fissa nella memoria gli eventi della prima settimana post-elezioni: dall’annuncio dei risultati elettorali ai primi atti di repressione. Scene che ormai consideriamo datate solo perché la luce dei riflettori dei nostri media occidentali sembra essersi spenta sulla Bielorussia.
Il punto della situazione
Sebbene la fase attiva delle proteste sia finita, continuano, in realtà, le marce sporadiche della domenica spesso organizzate da piccolissimi gruppi. A questo coro si aggiungono le manifestazioni di solidarietà nelle città di tutto il mondo: da Kiev a San Pietroburgo fino a Tokyo. Manifestazioni che hanno avuto risonanza internazionale soprattutto in occasione della Giornata della solidarietà indetta dalla Tikhanovskaja.
Inoltre, lo scorso 16 febbraio un nuovo giro di vite si è stretto attorno ai giornalisti indipendenti e agli attivisti per i diritti umani della ONG Viasna. In poche ore ha fatto il giro del mondo la commovente foto dell’abbraccio tra le due giornaliste giovanissime, Katsiaryna Andreyeva e Daria Chultsova, entrambe condannate a due anni di reclusione per aver ripreso le proteste a seguito della morte di Roman Bondarenko.

Il giorno successivo si è aperto anche il processo a Viktor Babariko, ex presidente di Belgazprombank e potenziale candidato alle elezioni del 2020, in carcere ormai dallo scorso giugno. I capi d’accusa vanno dall’evasione fiscale alla costituzione di un’organizzazione criminale e potrebbero costargli fino a quindici anni di detenzione.
Mentre a dicembre Svetlana Tikhanovskaja è stata nominata per il premio Nobel per la pace, fuori dalla Bielorussia il clima si fa sempre più teso. Diverse voci dalla comunità internazionale continuano ad alzarsi contro l’illegittimità del presidente e i metodi di repressione. Il nuovo anno, ad esempio, ha aperto le quinte con l’aspra decisione della Federazione internazionale di hockey su ghiaccio di escludere la Bielorussia dall’ospitare il campionato mondiale.
Anche il Consiglio Europeo ha prorogato le sanzioni nei confronti di 88 individui, Lukashenko compreso, ritenuti responsabili della “repressione violenta e delle intimidazioni nei confronti dei manifestanti pacifici”. L’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha parlato di una crisi senza precedenti nel Paese in un report a dimostrazione dell’escalation di violenza tra maggio e dicembre dello scorso anno.
La sesta Assemblea popolare bielorussa

Intorno alla metà di ottobre del 1996 i membri dell’allora governo bielorusso insieme ai rappresentanti dei più disparati settori, dall’economia alla scienza, si riunirono a Minsk per due giornate. Stava prendendo così vita l’Assemblea popolare bielorussa, assimilabile secondo alcuni ad una sorta di remake dell’ex congresso del PCUS con una nuova nomenklatura.
All’epoca la prima riunione si prefissava di esaminare quello che di lì a poco più di un mese sarebbe diventato uno dei punti di svolta del primo mandato di Lukashenko: il referendum costituzionale per ampliare i poteri presidenziali. A venticinque anni da quel primo incontro, l’Assemblea si è riunita nuovamente a Minsk per la sesta volta, sempre sotto la guida di Lukashenko. Ironia della sorte: uno degli argomenti trattati è stato proprio il famigerato referendum costituzionale che è nell’aria ormai da mesi.
L’assenza di bozze concrete della nuova Costituzione genera in realtà uno scetticismo diffuso in casa e fuori. Le ipotesi sono tante. Forse Lukashenko non è pronto a cambiare la Bielorussia o forse sta solo cercando di posticipare il tutto per far calmare le acque. Il referendum riguarderà in particolare una ridistribuzione dei poteri tra le maggiori cariche del Paese. Si apre così un ulteriore scenario. Lukashenko potrebbe formalmente lasciare il trono ad un nuovo presidente fortemente indebolito, mantenendo però un ruolo cruciale per il Paese e diventando il nuovo marionettista del teatro da dietro le quinte. La scuola Nazarbaev, dunque, potrebbe attecchire anche qui, con tutte le differenze del caso.
Quello del referendum non è però l’unico parallelo col passato. “Il periodo attuale è paragonabile alla caduta dell’Unione sovietica […] la Bielorussia ha subito un violento attacco dall’esterno”, ha dichiarato Batka. Il Paese sarebbe stato, dunque, vittima di una blitzkrieg con lo scopo di rovesciare il presidente in carica e cambiare le carte in gioco. L’arringa di Lukashenko ha colpito duramente l’Occidente e i suoi valori fondamentali. Pungenti i riferimenti sia alle morti di Mu’ammar Gheddafi e Saddam Hussein che alla pessima gestione della pandemia negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei.
L’Assemblea è stata anche un’occasione per rimarcare la linea multivettoriale della politica estera bielorussa. Tra i capisaldi il legame fraterno con Russia ed Ucraina, ma anche l’amicizia con la lontana Cina. Allo stesso tempo, Lukashenko ha cercato di mantenere un approccio cauto senza sbilanciarsi sul fronte orientale, evidenziando la volontà di continuare a fare affari con l’Unione Europea.
Nonostante ciò, il ministro degli Esteri Makej si è detto intenzionato a preparare un documento base con le linee guida da seguire in politica estera a seguito dei recenti avvenimenti. Makej ha parlato di modificare l’Articolo 18 della Costituzione sulla neutralità del Paese. In realtà, questo potrebbe non rappresentare un cambiamento epocale, dato che la Bielorussia ha una visione tutta sua del concetto di neutralità, essendo membro effettivo della CSTO. Il trattato istitutivo prevede infatti una condizionalità simile all’Articolo V del Trattato nordatlantico, secondo la quale un attacco contro un membro forza gli altri firmatari ad intervenire.
Lukashenko e Putin a Sochi

Il post assemblea ha visto Lukashenko e Putin incontrarsi a Sochi ed intrattenersi in un colloquio informale di sei ore sullo sfondo di un resort sciistico di Krasnaja Poljana. Con la crescente vulnerabilità interna e le tensioni sul fronte occidentale, Minsk non può che voltarsi ad est e chiedere protezione ai fratelli russi.
Già lo scorso settembre il presidente bielorusso si era recato a Sochi per elemosinare un prestito da un miliardo e mezzo di dollari. Aiuti non a titolo completamente gratuito. Infatti, mentre Lukashenko sogna fiumi di investimenti dalla Russia, Putin potrebbe cogliere l’occasione per una maggiore integrazione economica nell’Unione statale attraverso la valuta unica. Inoltre, la Bielorussia firmerà un nuovo accordo con Mosca sul mercato comune del gas all’interno dell’Unione economica eurasiatica.
Mosca è poi impaziente di estendere la concessione delle basi di Baranovichi e Vileika per altri venticinque anni. Nel 2021 si terranno una serie di esercitazioni militari congiunte da non sottovalutare, tra le quali Zapad-2021. Che sia la volta buona per Mosca per impiantare una presenza militare stabile sul territorio bielorusso? Qualcuno ha addirittura già fatto qualche previsione un po’ avventata parlando di una lenta annessione.
Il 2021 rappresenterà una pietra miliare nella storia del Paese. O almeno ne è convinto Batka. Sorpassato lo stadio caldo delle proteste, Lukashenko passa alla fase due, quella in cui prende tempo e si assicura un posto al caldo per la transizione che verrà. Nel frattempo, il Cremlino allunga le mani e tenta intascare qualche vittoria nel caos bielorusso.