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Una guerra che la Russia non può davvero vincere

di Pietro Figuera
25 Febbraio 2022
in Editoriale, Russia
Tempo di lettura: 3 mins read
Una guerra che la Russia non può davvero vincere

Esplosione fuori Kiev, fonte: Ufficio del presidente ucraino

Non sappiamo ancora se il colpo di mano voluto da Putin in Ucraina funzionerà, nei suoi intenti immediati. Ma sappiamo che Mosca sta già perdendo moltissimo: i successi economici dei primi anni del putinismo, la garanzia di un Baltico non interamente NATO e, soprattutto, l’attendibilità di una narrazione geopolitica che non potrà più reggere. A che pro?

Alla fine si è giunti alla guerra. Un conflitto che, a prescindere dalla sua – si spera breve – durata, risulta già senza precedenti nella storia dello spazio post sovietico. E porterà cicatrici indelebili tra le due principali nazioni “sorelle” dell’area. Le analogie con la Georgia (2008) funzionano fino a un certo punto, né si possono in alcun modo paragonare gli eventi di oggi a quelli crimeani di otto anni fa, o alla guerra a bassa intensità che ha coinvolto finora il Donbass.

Siamo di fronte a qualcosa di totalmente nuovo. E di imprevedibile nei suoi sviluppi, così come nelle sue origini. A tal proposito, per quel che vale: facciamo anche noi mea culpa per la mancata “previsione” del conflitto. Ma se assieme a noi quasi tutti gli analisti hanno sbagliato, un motivo ci sarà. E oltre all’evidente realtà che la geopolitica non può e non deve essere meteorologia, né tantomeno chiromanzia, c’è il fatto che un colpo di mano per essere efficace deve essere inatteso, prima di tutto dagli avversari – e al di là degli allarmi statunitensi, la leadership ucraina fino all’ultimo non ha creduto alla possibilità di un conflitto su vasta scala.

E poi una valutazione accomunava (e accomuna ancora) tutte le analisi: una guerra, specie se di simile portata, può essere solo controproducente per la Russia. Non tanto in termini economici – sappiamo che tale variabile è poco presa in considerazione dai vertici del Cremlino – bensì in termini geopolitici, quelli solitamente tanto cari a Vladimir Putin. Che da freddo scacchista sembra essersi trasformato in azzardato giocatore di poker, se tutto questo fosse ancora un gioco. L’emotività trasmessa dalle sue parole del 21 febbraio era già di per sé un programma, una variabile pericolosa che da sola apriva tutti gli scenari.

Ma che qualcosa non tornasse, l’avevamo già rilevato nella fase più febbrile delle trattative con statunitensi ed europei. Quando la frequenza e l’urgenza delle consultazioni tra leader si era intensificata, facendo presagire come minimo una distanza incolmabile o quasi tra le posizioni, e come massimo quello che stiamo vedendo oggi, la volontà di far parlare esclusivamente le armi. Assieme all’inconcludenza della diplomazia – va comunque dato atto al presidente francese Macron di averci provato, sembra, fino all’ultimo e con ogni mezzo – a non “tornare” era ciò a cui accennavamo prima: la scarsa comunicazione tra l’intelligence di Kiev e quella di Washington, nonché i segnali ripetutamente offerti dagli statunitensi della volontà di lasciar campo libero ai russi.

Di questo comunque si parlerà nei libri di storia. Tornando al presente, anzi al prossimo futuro. Restano due strade. Quella di un radicamento o peggio allargamento del conflitto, suicidio geopolitico per Mosca. E quella di una soluzione rapida della crisi, per resa di Zelenskij alle condizioni russe o (più probabile) presa militare di Kiev. Con conseguente regime change favorevole a Mosca, chissà quanto digeribile per la popolazione ucraina. In ogni caso decenni di narrativa russa (principio di non ingerenza, intervento militare solo su richiesta governativa, alterità rispetto all’imperialismo Usa) sono gettati alle ortiche, non si sa bene per cosa. Di certo sappiamo che Putin non voleva passare alla storia come il presidente russo che aveva perso l’Ucraina, e sta tentando il tutto per tutto per dimostrare il contrario.

Arrivati a questo punto, però, la sua eredità geopolitica (anche tralasciando i giudizi morali) potrebbe essere ben peggiore di quella paventata: l’isolamento totale della Russia, il tracollo di una semi-ideologia e un impoverimento che annulla i successi economici del primo decennio putiniano. E la NATO che forse esce dalla porta (Ucraina) ma rientra dalla finestra baltica (Svezia e Finlandia sempre più tentate di entrare). Ne valeva la pena? Ai posteri l’ardua sentenza, ma scommettiamo che non sarà clemente.

Tags: GuerraRussiaTrendingUcraina
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Pietro Figuera

Pietro Figuera

Fondatore di Osservatorio Russia. Laureato in Relazioni Internazionali presso l’Alma Mater di Bologna e in seguito borsista di ricerca con l’Istituto di Studi Politici S.Pio V, si è specializzato in storia e politica estera russa, con particolare riferimento all’area mediorientale. Autore de “La Russia nel Mediterraneo: Ambizioni, Limiti, Opportunità”, collabora con diverse realtà, tra cui la rivista Limes, il Groupe d’études géopolitiques e il programma di Rai Storia Passato e Presente. Leggi i suoi articoli anche su: Limes, Le Grand Continent, TPI, Pandora, VDJ

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