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Home Politica e Istituzioni

Karakalpakistan: perché la democratizzazione deve andare di pari passo con l’accentramento

di Vincenzo D'Esposito
29 Luglio 2022
in Asia Centrale, Politica e Istituzioni
Tempo di lettura: 5 mins read
Karakalpakistan: perché la democratizzazione deve andare di pari passo con l’accentramento

Le proteste che sono esplose nel Karakalpakistan hanno riportato al centro dell’attenzione degli analisti il dibattito sulla stabilità dello spazio post-sovietico. Quello che è accaduto, alla luce delle recenti proteste kazake, non deve far pensare però che in Uzbekistan possa accadere qualcosa di simile al vicino settentrionale, che ha spinto ulteriormente sulla democratizzazione. Il rischio di un collasso per azione delle forze centrifughe è dietro l’angolo.

L’incubo uzbeco

L’Uzbekistan è un Paese complesso. La sua composizione etnica e demografica, unita alla fragilità dei suoi confini, lo hanno reso un territorio difficile da governare e prono all’accentramento del potere. Questo per evitare che spazi eccessivi lasciati alla popolazione potessero spaccare lo Stato e condurlo al collasso. Il primo presidente-dittatore dell’Uzbekistan, Islam Karimov, è stato tale perché ha goduto del supporto innanzitutto degli apparati di Stato, che tra le tante cose erano terrorizzati dall’idea che le minoranze nazionali, tagichi e caracalpachi su tutti, potessero optare per la secessione. Dal canto proprio la popolazione, quando non connivente col regime, in molti casi non aveva gli strumenti per opporsi al terrore instaurato dal clan Karimov nel Paese.

Non deve sorprendere, dunque, che durante i venticinque anni di regime la repubblica autonoma del Karakalpakistan sia rimasta tutto sommato tranquilla. Il controllo del territorio ha impedito l’insorgere di fenomeni apertamente separatisti, soprattutto a causa dei forti strumenti repressivi a disposizione di Taškent. Questo fino alla dipartita del primo presidente uzbeco.

Il miraggio di Mirziyoyev

L’arrivo di Shavkat Mirziyoyev al potere è stato a dir poco salvifico per l’asfittica economia uzbeca ed ha riportato un afflato di regionalismo in Asia centrale che si era perso nei venticinque anni precedenti a causa, principalmente, del suo predecessore. Questo non deve lasciar supporre, tuttavia, che l’azione del nuovo presidente sia stata esente da criticità. La questione delle minoranze è in questo la più eloquente, soprattutto alla luce delle recenti proteste che hanno investito il Karakalpakistan. La riforma costituzionale portata avanti da Mirziyoyev, ormai al suo secondo mandato, serviva principalmente a blindarlo come presidente anche dopo la scadenza di questo mandato e, in più, apportava delle modifiche ad altri aspetti della vita pubblica. Quello che ha causato l’esplosione del malcontento è stato il tentativo, fallito, di equiparare il Karakalpakistan agli altri territori uzbechi. Privandolo, cioè, della possibilità di indire un referendum per secedere dallo Stato.

Questo tema, non più all’ordine del giorno dopo i venticinque anni di regime di Karimov, sembra essere tornato in auge proprio grazie alle maggiori aperture verso il dibattito pubblico volute da Mirziyoyev. Se l’obiettivo del presidente era quello di creare una vivace società civile, questo gli è indubbiamente riuscito. Allo stesso tempo, però, ha sottovalutato i rischi che tale democratizzazione del dibattito pubblico avrebbero posto all’architettura statale, ancora troppo fragile e disomogenea.

Shavkat Mirziyoyev ha sfruttato la propria popolarità per proporre una riforma costituzionale molto invasiva. Il Karakalpakistan, poco integrato nello Stato uzbeco, ha deciso di ribellarsi.

Il Karakalpakistan non ci sta

La polverizzazione della società uzbeca è talmente palpabile che, non appena il presidente ha tentato di accentrare l’amministrazione dello Stato con una discussa riforma costituzionale, si è accesa la rivolta a Nukus e nel Karakalpakistan. La repressione è stata ferma, ma non ai livelli di quella che avrebbe preteso il vecchio presidente Karimov. Voci critiche si sono levate da parte sia dei manifestanti sia delle forze armate inviate a disperdere le proteste, come apparso in alcuni video finiti in rete. Nonostante questo, il presidente Mirziyoyev ha acconsentito a stralciare la parte concernente il Karakalpakistan dalla riforma costituzionale. Si è, tuttavia, espresso contro i sabotatori che, secondo lui, avrebbero manovrato le rivolte dall’esterno.

Il tema dei cospiratori esterni è un leitmotiv che si ritrova quasi sempre quando scoppiano tumulti in Asia centrale. È lo specchio di una classe politica non in grado di accettare che serpeggi del genuino malcontento tra la popolazione che governa. Nel caso in questione è certamente possibile che ci siano state delle influenze esterne, ad esempio provenienti dal vicino Kazakistan, con cui la popolazione caracalpaca condivide significativi legami etnolinguistici. Era però noto da tempo che la popolazione in questa parte di Uzbekistan fosse tradizionalmente meno legata all’unione con Taškent. Ciononostante, il rischio dell’esplosione di proteste di tale portata era stato completamente sottovalutato dalla maggior parte degli analisti, oltre che dei governanti uzbechi.

Fare i conti con la realtà

Quanto accaduto in Uzbekistan fa capire come l’equilibrio interno al Paese resti fragile e quanto complicate siano le riforme da mettere in campo. Il presidente Mirziyoyev si trova davanti ad un dilemma: accentrare il potere e restringere gli spazi che sono stati garantiti alla vita democratica del Paese oppure proseguire nella democratizzazione ed accettare di perdere il controllo su pezzi di società o, peggio, di territorio. Tra le due strade, la prima sembra quella più plausibile.

Alla luce dell’accentramento di potere già in atto nel Paese con la riforma in questione, la strada appare piuttosto spianata. Tuttavia, se Mirziyoyev non può permettersi delle riforme che appaiono eccessivamente democratiche, come invece può fare Tokayev in Kazakistan, per non perdere il controllo su territorio e popolazione, dall’altro lato l’Uzbekistan non può tornare ad essere una dittatura com’è stata per i primi venticinque anni della sua vita. Una mediazione tra le due strade è fondamentale. Taškent ha dato vita ad una ritrovata armonia in tutta la regione centro-asiatica. Il Paese si è fatto portavoce di principi di libertà e cooperazione che difficilmente potrebbero essere rimessi in discussione dopo soli sei anni. Per di più, dallo stesso presidente che ha avviato il processo di democratizzazione dello Stato.

Il Karakalpakistan in questo processo rischia di fare la fine del vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, sacrificato sull’altare della stabilità. Peggio ancora, insanguinato dalla repressione qualora intendesse secedere realmente. Taškent si è dimostrata accomodante in questa fase nei confronti dei manifestanti, ma appare evidente che non sarebbe tollerato alcun tentativo di staccare il Karakalpakistan dal resto del Paese. Questo soprattutto alla luce dei ricchi giacimenti di gas che sono stati rinvenuti nella repubblica autonoma e sul fondo del lago d’Aral. Infine, un Karakalpakistan indipendente finirebbe inevitabilmente nell’orbita dell’apparentemente ben disposto Kazakistan. Rafforzando la posizione kazaka si metterebbe in discussione qualsivoglia tentativo uzbeco di sfidare l’attuale superiorità politica ed economica del vicino settentrionale. Un’eventualità che Taškent, memore del proprio ruolo dominante nel Turkestan sovietico, non ha intenzione nemmeno di contemplare.

Tags: Asia Centralepolitica internaUzbekistan
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Vincenzo D'Esposito

Vincenzo D'Esposito

Laureato magistrale in Studi Internazionali all’Università “L’Orientale” di Napoli. Attualmente iscritto al Master di I livello in Sviluppo sostenibile, Geopolitica delle risorse e Studi artici presso la SIOI. Ha trascorso due Erasmus in Germania, che lo hanno portato prima a studiare a Friburgo in Brisgovia e poi a svolgere un tirocinio presso la Camera di Commercio Italiana per la Germania. Appassionato di Asia centrale ed energia, collabora con alcuni think tank come analista geopolitico.

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