In Bielorussia la Costituzione garantisce “la libertà, l’inviolabilità e la dignità dell’individuo”. E anche se prevede la possibilità della pena di morte, esclude il ricorso a ogni forma di tortura. Principi oggi lontani dalla realtà.
Nove milioni e dodicimila abitanti[1], di cui più di 1200[2] attualmente in carcere per motivi politici: la Bielorussia, ancora nel 2025, sembra confermare la preoccupante tendenza che da anni la caratterizza. Il capillare sistema penitenziario del Paese è famigerato dentro e fuori i suoi confini per le condizioni di detenzione dei prigionieri, specialmente degli oppositori politici, e per il suo ruolo di strumento nelle mani del governo. Per comprendere appieno il funzionamento della macchina di repressione penale del Paese e il modo in cui viene influenzato dal potere esecutivo, occorre fare un salto alle origini delle fonti giuridiche da cui prende radici.
La Bielorussia, repubblica presidenziale, fonda il suo intero sistema normativo sulla Costituzione, testo fondamentale ai cui principi ogni successiva legge si deve attenere: adottata il 15 marzo 1994, è stata in seguito modificata da referendum costituzionali nel 1996, nel 2004 e da ultimo nel 2022. Con il primo, il già allora presidente Aleksandr Lukašenka ha aumentato considerevolmente le prerogative presidenziali: facoltà di scioglimento del Parlamento, nomina e destituzione dei giudici tra cui il presidente della Corte Suprema e della Corte Costituzionale, sostituzione del Consiglio Supremo, primo parlamento del Paese, con l’Assemblea Nazionale. Nel 2004 viene abolito il limite ai mandati presidenziali, ragion per cui, almeno sulla carta, è giuridicamente lecito per Lukašenka ricoprire la carica presidenziale oggi dopo più di trent’anni. Tre anni fa, infine, con l’ultima riforma costituzionale sono stati approvati un nuovo organo con il potere di emendare la Costituzione – l’Assemblea del Popolo di Tutta la Bielorussia – e l’immunità per gli ex presidenti, non più perseguibili legalmente.
La validità dei risultati di questi referendum è stata fortemente messa in discussione nel corso degli anni dagli oppositori di Lukašenka, che ne contestano la scarsa trasparenza e la diffusione di brogli elettorali, come accaduto nelle elezioni presidenziali del 2020. Nonostante ciò, i voti referendari dimostrano in modo lampante come sia stato possibile valicare principi giuridici essenziali e riconosciuti a livello internazionale per rendere la Bielorussia un Paese sempre meno democratico, anno dopo anno.
Non è la Costituzione ad occuparsi nello specifico di regolamentare il sistema penitenziario. Nel testo costituzionale si trovano piuttosto enunciati i diritti fondamentali della persona in materia di libertà individuale, condizioni di detenzione e garanzie processuali, in particolare nella Seconda Sezione, “Individuo, Società e Stato”[3], agli articoli 21 e seguenti. Ad esempio, l’articolo 25 recita:
“Lo Stato garantisce la libertà, l’inviolabilità e la dignità dell’individuo. La limitazione o la privazione della libertà personale è possibile nei casi e nei modi stabiliti dalla legge. Una persona posta in custodia ha diritto a una revisione giudiziaria della legalità della sua detenzione o del suo arresto. Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura, a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti, né a esperimenti medici o di altra natura senza il suo consenso”: il testo dell’articolo è limpido e tassativo, eppure contrasta con le attuali condizioni di detenzione di una buona parte dei prigionieri bielorussi, in particolare di quelli accusati di disordini, manifestazioni violente, attività sovversive dell’ordine statale e simili. In tre parole, i dissidenti politici.

Prendendo invece a riferimento i testi legali specifici, le fonti principali sono riscontrabili nei codici Penale, Penitenziario e di Procedura penale: la Bielorussia prevede diverse tipologie di pena, tra cui naturalmente quelle detentive, quindi il carcere e la colonia penale. Quest’ultima è stata ormai quasi completamente abbandonata nei Paesi europei: nata nella seconda metà dell’Ottocento, fu molto popolare tra i Paesi del continente nello scorso secolo[4]. Il principio è quello dei lavori forzati come pena: le strutture sorgevano in posti isolati e i detenuti erano obbligati a lavorare per lo Stato. In Bielorussia queste pene sono ancora oggi particolarmente sfruttate, e anzi favorite rispetto al carcere, così com’era in epoca sovietica: trasformate in moderni campi di lavoro, ospitano i condannati in dormitori comuni e in spazi semi-aperti, a differenza del carcere vero e proprio. Quest’ultimo prevede condizioni di detenzione più severe, tra cui ad esempio l’isolamento dei carcerati. Sono infine previste le misure dell’arresto e della detenzione amministrativa, il primo caratterizzato dall’essere pressoché una custodia cautelare – più leggera come pena rispetto alle precedenti – mentre la seconda è specialmente impiegata per punire le manifestazioni di disobbedienza civile che si sono moltiplicate a partire dal 2020.
La Bielorussia è l’ultimo Paese europeo in cui vige la pena di morte: eseguita attraverso fucilazione, spesso in segreto – non viene divulgata la data esatta dell’esecuzione al condannato, né ai suoi familiari – viene risparmiata solo a minorenni, donne e persone oltre i 65 anni d’età. L’istituto è stato fortemente criticato dalla comunità internazionale, eppure è perfettamente legale nel Paese: l’articolo 24 della Costituzione la prevede e il Codice penale esplica quali siano i reati per cui si possa incorrere nella pena capitale. Terrorismo, genocidio, omicidio aggravato, cospirazione per impadronirsi del potere statale e crimini contro l’umanità sono alcuni di questi. Nel 2024 il Tribunale regionale di Minsk ha condannato alla fucilazione un cittadino tedesco, Rico Krieger, colpevole secondo la magistratura di reati tra cui terrorismo ed estremismo[5]: Krieger si è salvato con la grazia presidenziale – unica possibilità per i condannati a morte di scampare la pena – venendo rilasciato il primo agosto in occasione del grande scambio di prigionieri tra Russia, Stati Uniti e Germania. Nonostante i numeri ufficiali siano torbidi, si stima che dal 1991, anno d’indipendenza della Bielorussia dall’Unione Sovietica, siano stati almeno 400 i prigionieri ad aver subito la pena capitale[6].

Detenuti ergastolani del carcere di Glubokoye, nord di Minsk, allineati per l’ispezione. Fonte: https://www.bbc.com/news/world-europe-37642185
Se è vero che la stessa Costituzione proibisce la tortura e il Codice penale punisce i crimini contro l’umanità, entrambi questi reati sono stati però contestati nel corso degli anni al governo bielorusso da alcuni attori, in particolare da membri dell’Unione Europea e dalle associazioni per i diritti umani. Le accuse riguardano le condizioni dei detenuti e spesso le imputazioni alla base della detenzione: a settembre scorso, la Lituania ha persino denunciato Lukašenka ed il suo governo alla Corte Penale Internazionale[7], tra le altre cose per i trattamenti repressivi degradanti riservati alla popolazione civile dissidente.
Dunque, cosa rischia concretamente un oppositore politico in Bielorussia nel 2025? La risposta si trova nell’esperienza e nelle testimonianze concrete di chi ha subito le conseguenze dell’apparato punitivo del Paese. Sono diventate ormai tristemente famose le carceri di Okrestina, nella capitale, per essersi “specializzate” dal 2020 ad oggi nella reclusione dei manifestanti e degli attivisti anti-governativi, sottoposti a torture, abusi sessuali e sevizie[8]. Tra i dissidenti più noti a livello internazionale l’ex candidato alla presidenza Viktar Babaryka e il Nobel per la Pace 2022 Ales Bialiatski, condannati a regime di lunga detenzione in colonie penali, rispettivamente quella di Navapolatsk e di Horki: Babaryka è stato ricoverato a febbraio 2023 per pestaggi subiti durante la reclusione.
È fondamentale tenere a mente come il diritto, ovunque lo si studi ed applichi, non sia “materia statica”: le leggi sono, per la loro complessa e sfaccettata natura, soggette all’interpretazione di chi ne fa uso e le vive. Quando però questa interpretazione viene piegata alla volontà di reprimere le voci contro il potere, accade che in Bielorussia, nei confini europei, vengono oggi condannati centinaia di attivisti, giornalisti e politici per crimini formalmente riconosciuti – come l’offesa a pubblici ufficiali, la creazione o partecipazione ad una formazione estremista, atti di terrorismo ed alto tradimento – ma vagamente definiti. Di fatto, usando il diritto come un grimaldello per la criminalizzazione dell’opposizione politica.
- Beatrice Scavino
[1] https://www.worldometers.info/world-population/belarus-population/
[2] https://apnews.com/article/belarus-crackdown-babaryka-lukashenko-election-5af31d99325cafdf3b264b734ab69840
[3] https://president.gov.by/ru/gosudarstvo/constitution
[4] https://ristretti.org/le-ultime-eredi-delle-colonie-penali-in-italia
[5] https://www.hrw.org/world-report/2025/country-chapters/belarus
[6] https://www.amnesty.org/en/latest/press-release/2009/03/belarus-time-end-executions-20090324/?utm_source=chatgpt.com
[7] https://www.eunews.it/2024/10/01/lituania-corte-penale-lukashenko/
[8] https://bielorussialibera.wordpress.com/2020/08/14/il-carcere-in-via-okrestina-e-stato-trasformato-in-un-campo-di-sterminio-il-difensore-dei-diritti-umani-ales-bialiatskij-parla-di-una-violenza-inaudita/