La Transnistria resta fuori da ogni riconoscimento internazionale, ma al suo interno tutto funziona: rubli non convertibili, SIM dedicate, istituzioni autonome. Nei fatti, è innegabile che esista. Seconda puntata del reportage del nostro inviato Tommaso Bontempi. Qui la prima parte.
Superati i tre checkpoint, entriamo finalmente nella Pridnestrovskaja Moldavskaja Respublika. Tecnicamente non abbiamo ancora oltrepassato il Dnestr, che attraverseremo poco dopo nei pressi di Bendery (anche conosciuta, in moldavo e rumeno, come Tighina o Bender). Proprio lì, sul ponte, la presenza militare è particolarmente evidente: ancora postazioni fortificate, ancora barriere di cemento e, ancora, soldati russi a presidiare il passaggio.
Una storia di sangue
Ma per le autorità locali siamo già “dentro”. È anche una questione di parole: “Transnistria” significa letteralmente “al di là del Dnestr” e riflette un punto di vista moldavo. Pridnestrovie, invece, significa, più genericamente,“prima” o “intorno al Dnestr” e rappresenta l’autodefinizione ufficiale dello Stato secessionista. Usare il termine sbagliato può costare caro: in Transnistria, l’utilizzo del nome “Transnistria” è considerato un atto ostile.

Il T-34 di Tiraspol’
Il motivo non è solo politico. Tra il 1941 e il 1944, l’area allora conosciuta come Governatorato di Transnistria fu teatro di uno dei peggiori massacri dell’intera Europa orientale. Sotto amministrazione rumena, con il sostegno della Germania nazista, furono uccisi fino a 380.000 ebrei e circa 11.000 rom. Molti morirono per fame, freddo o malattie nei ghetti improvvisati e nei campi di concentramento disseminati lungo il corso del fiume. Le vittime provenivano soprattutto dalla Bessarabia e dalla Bucovina settentrionale, deportate in quella che era stata trasformata in una zona di sterminio a tutti gli effetti.
Anche per questo motivo, quindi, il nome Transnistria è oggi rifiutato con decisione dalle autorità di Tiraspol’, che lo considerano un termine legato a una memoria tragica e associato a crimini contro l’umanità. In contesti pubblici, può perfino comportare conseguenze legali: multe salate e, in alcuni casi, fino a quindici giorni di prigione.
Tutto sotto controllo

La Casa dei Soviet di Tiraspol’
A Tiraspol’ arriviamo senza problemi. La città, ordinata e tranquilla, dà un’impressione di apparente normalità. Ma basta poco per accorgersi di quanto qui tutto funzioni su binari separati rispetto al resto della Moldova. Lo stipendio medio di un operaio si aggira intorno ai 4000 rubli della PMR (acronimo russo della Repubblica Moldava di Pridnestrovie). Una valuta che esiste solo qui, non è convertibile (né riconosciuta internazionalmente) e non può essere cambiata fuori dal territorio repubblicano. Fa eccezione la maršrutka che collega Chişinău a Tiraspol’: lì i rubli della PMR vengono accettati per il pagamento del biglietto, unico caso noto. Al cambio ufficiale, deciso in modo unilaterale di giorno in giorno dalla Banca repubblicana, un euro equivale oggi a poco meno di 19 rubli locali. Tradotto in pratica, uno stipendio da operaio vale circa 210 euro al mese; quello di un impiegato ministeriale poco più di 180. Nessun circuito di carte internazionali è attivo sul territorio: come in Russia, Mastercard e Visa sono inutilizzabili. Il governo si è organizzato e ha creato un proprio sistema di carte di pagamento, utilizzabile nei negozi e nei servizi interni. Tutti i residenti ne possiedono una.
A vederla da fuori, la Transnistria potrebbe sembrare un’area disordinata, abbandonata a sé stessa. In realtà, una volta dentro, colpisce il grado di organizzazione. Tutto sembra funzionare con una certa regolarità. Le strade sono pulite, i negozi aperti, nei bar si paga senza problemi (al netto, naturalmente, di quanto ci siamo detti poco sopra). L’impressione è quella di una stabilità quotidiana che non ci si aspetterebbe da uno Stato non riconosciuto. Un dettaglio che salta all’occhio, poi, sono le automobili. Ce ne sono tante, e non solo le Lada scassate che ci si aspetterebbe. Girano diverse Jaguar, persino qualche Tesla. A Chişinău, di auto così, ne abbiamo viste poche.

Automobile Targata Transnistria, Tiraspol’
È tutto “fatto in casa”: dai soldi alle carte di credito, fino alla rete telefonica. La Transnistria ha infatti sviluppato un proprio operatore mobile, con SIM dedicate e infrastruttura autonoma. Il sistema funziona esclusivamente all’interno del territorio repubblicano: una rete chiusa, costruita per necessità. Le autorità moldave, infatti, cercano attivamente di bloccare la diffusione del proprio segnale nelle aree sotto controllo transnistriano, nel tentativo di limitare l’accesso alla rete telefonica e Internet nazionale. Ma l’efficacia è relativa: la regione è larga solo poche decine di chilometri quadrati e là il segnale, inevitabilmente, filtra.
Anche sul piano digitale, la Transnistria resta isolata. Non dispone di un dominio nazionale riconosciuto e, naturalmente, non accetterebbe mai di utilizzare il .md moldavo. I siti “ufficiali” – quello del governo, dei ministeri e della Banca repubblicana, per dirne alcuni – ricorrono ai suffissi .org o .com.
Il culto della Vittoria

Il Giorno della Vittoria
L’atmosfera, anche nei dettagli, ricorda più la Russia che la Moldova. Tiraspol’ ha l’aspetto e il passo delle città russe “di provincia”. Non tanto una capitale nazionale, quanto piuttosto una Petrozavodsk o una Tula: ordinata, molto verde, monumentale quanto basta. Piazza Suvorov e via 25 Ottobre ne sono il cuore. Da un lato, un carro armato T-34 issato su piedistallo, uno dei monumenti più iconici della città, e la fiamma eterna che arde davanti al memoriale ai caduti. Sullo sfondo, una chiesa ortodossa dal profilo classico dedicata a San Giorgio Vittorioso, cupole dorate incluse. Alle spalle del monumento al generale Suvorov, una piccola collezione di bandiere. Quella della Transnistria, naturalmente, che è poi quella della Repubblica socialista moldava di sovietica memoria. Ma anche quella russa. E poi le bandiere dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, due entità de facto indipendenti ma riconosciute soltanto da un pugno di membri ONU. E dalla Transnistria. Che però, oltre che da loro, non è riconosciuta da nessuno.
Siamo stati lì a fine aprile, nella settimana che precedeva il Giorno della Vittoria. Il 9 maggio è la ricorrenza più importante del calendario civile della maggior parte dei Paesi est-europei e centroasiatici che furono socialisti. In Transnistria, ancora più che altrove, il culto della memoria bellica assume un ruolo centrale; possiamo affermare che, ancora oggi, è uno dei pilastri che sostengono l’esistenza stessa dello Stato.

All’inizio del 2024, a seguito della chiusura dei gasdotti che attraversavano l’Ucraina, la regione si è trovata improvvisamente senza un mezzo per riscaldare gli uffici e le abitazioni; perfino le scuole elementari sono rimaste al freddo. Ma la fiamma eterna che arde davanti al monumento del T-34, alimentata da una conduttura dedicata, non si è mai spenta.
“Noi esistiamo”
All’ora di pranzo visitiamo la celebre mensa sovietica del centro, su Instagram piuttosto popolare. La sala è decorata con faccioni di Lenin, bandiere e cimeli del periodo socialista. Siamo sottoterra e il telefono non prende. Sembra che ci abbiano catapultati nell’Unione Sovietica degli anni Settanta. Il menù propone bliny, purè di patate, kotlety di carne e (molto) abbondante vino rosso locale. La nostalgia non è però un elemento esclusivamente folkloristico. La popolazione, ancora oggi, si sente parte di qualcosa, di qualcosa che non esiste più da decenni.

Monumento ai caduti
Abbiamo avuto modo di chiacchierare con alcune signore anziane che, con gentilezza e un po’ di malinconia, ci hanno parlato di ciò che è andato perduto. I loro figli vivono altrove, soprattutto in Ucraina, tra Odessa e Leopoli. Durante l’epoca sovietica la Transnistria era una delle regioni industriali più avanzate dell’intera Unione: qui si lavorava, gli stipendi erano più che dignitosi. Tutti, sostengono, potevano permettersi una vita decorosa. Tutto era più bol’šoj, più širokij, dicono. Più grande e più largo.
Un uomo del posto, neanche quarantenne, che ci accompagna per un tratto del nostro giro è un convinto patriota transnistriano. Non ha mai pensato di emigrare, né in Russia né altrove. Vuole mostrare il suo Paese al mondo. E insiste, con grande orgoglio: “noi esistiamo”.
Tommaso Bontempi
Fine della seconda puntata. [Nei prossimi giorni pubblicheremo la terza. Qui potete rileggere la prima]





